Bmw, Audi, Range Rover: ecco come rubano le auto di lusso

Jammer e turbo-decoder erano gli strumenti utilizzati dall'organizzazione criminale

Bmw, Audi, Range Rover: ecco come rubano le auto di lusso
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Bmw, Audi, Jaguar ma soprattutto Range Rover. Erano questi i veicoli di lusso "preferiti" dell'organizzazione criminale smantellata settimana scorsa dai Carabinieri. La banda era composta per lo più da cittadini albanesi e italiani, cinque dei quali residenti a Monza, con precisi ruoli affidati a ciascun componente. I veicoli venivano poi rivenduti sia in Italia che all’estero, in particolare in Germania, Albania e Montenegro.

Ecco come rubavano le auto

Tutto iniziava coi cosiddetti «servizi di osservazione». Uno dei complici teneva d’occhio i proprietari delle auto - tutte rigorosamente di alta gamma - che avevano intenzione di rubare.

Poi entravano in gioco «gli strumenti del mestiere». I ladri facevano infatti ricorso, oltre che a chiavi elettroniche clonate, ai jammer, strumenti che intercettano i meccanismi di chiusura elettronica delle auto.
Il sistema è piuttosto semplice. Il ladro si apposta nelle vicinanze del veicolo che intende rubare, poi, nel momento in cui il proprietario lo chiude, con un jammer scherma il segnale del telecomando e annulla l’input dato col risultato che l’auto rimane aperta.

Un espediente che consentiva dunque ai componenti dell’organizzazione di aprire i veicoli in pochi secondi, per poi farli ripartire mediante l’uso di un dispositivo elettronico collegato alla presa di diagnosi obd. Non solo quindi erano in grado di rubare un’auto in pochissimo tempo, ma tale sistema permetteva anche di non lasciare alcun segno di scasso sulla carrozzeria. Oltre ai jammer, alcuni dei componenti del sodalizio avevano a disposizione i turbo-decoder, utensili che, inseriti in una serratura, si codificano automaticamente.

Le auto venivano «ripulite»

Il passo successivo era quello di portare le auto rubate nei box interrati a loro disposizione - un vero e proprio «patrimonio comune del sodalizio», come lo hanno definito gli inquirenti - dove venivano sottoposte alle cosiddette «bonifiche», ovvero ai lavori di rimozione degli impianti di allarme (se presenti).

Non solo. Le auto venivano anche «ripulite» da qualsiasi componente che avrebbe potuto tradirne la provenienza: le centraline venivano «azzerate» ovvero ricodificate, mentre per i telai procedevano con la «punzonatura», vale a dire l’alterazione dei numeri di serie apposti nelle varie parti delle auto. Prima di essere mandate all’estero, veniva anche cambiata la targa, sostituita con una falsa.
La banda però non si limitava a rubare. Capitava anche che acquistassero veicoli incidentati per poi montare sul telaio «pulito» e dotato di targhe originali, un veicolo identico ma di provenienza furtiva. E’ ciò che era successo a un «Range Rover» rubato a marzo nel parcheggio dell’aeroporto di Malpensa: alcuni dei componenti del sodalizio ne avevano rimontato l’intera componentistica (vale a dire carrozzeria, impianto elettrico, impianto meccanico e interni) su un «Range Rover» identico che era rimasto gravemente danneggiato in un incidente.

Tutti i box a loro disposizione

Fondamentali, dunque, ai fini delle loro attività criminali, erano i box presi in affitto con dati anagrafici inesistenti e senza un regolare contratto. A Monza la banda ne aveva a disposizione due, entrambi in via Oslavia 24, una traversia di via San Gottardo, il cui custode risultava essere Alberto Mondanese. Due posti auto interrati li avevano anche a Sesto, rispettivamente in via Fratelli di Dio 294 e il piazza XI Settembre 73. Passando a Milano, gli indagati potevano usufruire di un box singolo e di uno doppio in via Leoncavallo 17. Infine, a Rozzano, avevano uno spazio in via delle Stelle Alpine 10/1.
Dei box, questi, scelti accuratamente. Tutti si trovano infatti nei piani interrati degli edifici, dove non c’è copertura di segnali gps, umts e gsm. Tutto ciò rendeva praticamente impossibile la localizzazione da parte di eventuali sistemi d’allarme.

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