Luoghi e volti dell’inferno nazifascista celebrano il nostro Giorno della Memoria
Alcune conosciute, altre meno: cinque storie di sofferenza, coraggio e generosità
Quale ruolo riveste la memoria nella vita dell’uomo? «Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla - ora soltanto - per la prima volta» scrive Cesare Pavese ne «Il mestiere di vivere», diario iniziato quand’era confinato dal regime fascista a Brancaleone.
Luoghi e volti dell’inferno nazifascista celebrano il nostro Giorno della Memoria
Parole che valgono sempre e oggi sabato 27 gennaio, Giorno della Memoria in cui si commemorano le vittime dell'Olocausto, ancora di più. In questo servizio vi raccontiamo cinque storie diverse, volti e luoghi che nel nostro territorio sono emblema dell’orrore nazifascista. Alcuni conosciuti, altri meno.
Molti dei testimoni di allora sono volati in Cielo: alcuni sentivano forte l’esigenza di trasmettere agli altri quanto vissuto, altri ne parlavano con fatica. E’ importante quindi continuare a ripetere che oggi, anche di fronte al lungo elenco dei conflitti in atto, tocca a noi impedire che ciò che è stato venga dimenticato, affinché non si ripeta mai più.
La storia dell’operaio generoso che salvò due medici ebrei
La storia è fatta anche di persone normali, capaci però di gesti straordinari. A Besana in Brianza ce n’è stata una che ancora oggi, nonostante le oltre sette decadi trascorse, rimane senza nome perché prima lui e poi i suoi famigliari hanno gelosamente protetto quei giorni di coraggio e generosità che hanno salvato la vita a una coppia di medici ebrei. Daniela Villa ne fa cenno - rispettando l’anonimato - ogni anno parlando agli studenti che partecipano alla tradizionale iniziativa organizzata dal Centro culturale San Clemente di Cazzano, della quale è volontaria, in occasione del Giorno della Memoria per ricordare ai besanesi e non solo, a partire proprio dalle giovani leve, l’orrore della deportazione.
Siamo in piena Seconda guerra mondiale: un operaio della Visconta, località al confine tra Besana e Briosco, ogni giorno prende il treno per andare a lavorare in fabbrica a Sesto San Giovanni. Proprio lì dove nel marzo del 1944 venne organizzata «la più grande dimostrazione di massa nell’Europa occupata», come il New York Times aveva definito gli scioperi antifascisti degli operai, molti dei quali furono deportati a Mauthausen.
Una sera non sale sul vagone, fa rientro a casa a piedi, oltre quattro ore di cammino. Lo fa per non incappare in controlli perché non è solo, con lui ci sono due medici - marito e moglie - ebrei, in fuga da Milano. Ce la fanno. Arrivano in cascina sani e salvi. La coppia viene nascosta dall’operaio e dalla sua famiglia fino alla fine del conflitto. I besanesi mettono così a repentaglio la loro stessa vita per aiutare due sconosciuti. Non solo. Al tempo da mangiare ce n’era già poco per loro, figuriamoci per nutrire altre due persone. Invece lo fanno, dividono tutto il poco che avevano.
«Ci sono altre storie simili che si tramandano di generazione in generazione in città - ha garantito Villa - Mia nonna, ad esempio, raccontava che durante la guerra una notte uscì in cortile e si trovò davanti una donna sconosciuta che la salutò in tedesco. Probabilmente era ebrea, anche lei nascosta da qualcuno nella zona».
A Carnate i coniugi Colombo uniti nella vita e nella morte
Uniti nella vita e nella morte, ma anche nel ricordo. Carnate non dimentica il sacrificio di Alessandro Colombo e Ilda Zamorani, i coniugi titolari della storica «Fornace» (azienda che ha dato il nome all’attuale quartiere del paese brianzolo, ndr) e a cui è oggi è dedicata una via proprio laddove un tempo si ergeva la fabbrica di porcellane. E dove, questo fine settimana, verrà deposta una Pietra d’inciampo a imperitura memoria.
Alessandro Colombo nacque il 17 dicembre 1875 a Pitigliano (Grosseto) da una famiglia ebraica. Già funzionario di ragioneria presso le Regie prefetture di Chiari, Sanremo, e Milano, ricoprì per 26 anni la carica di ragioniere unico presso la congregazione di carità di Monza che amministrava l'ospedale Umberto I. Insegnante di ragioneria, una volta pensionato rilevò a Carnate la «Ceramica Briantea».
Il 20 febbraio 1939, insieme alla moglie Ilda Zamorani, dovette presentare la denuncia di appartenenza alla razza ebraica in aderenza alle leggi per la difesa della razza. Dopo l'8 settembre 1943 si trasferì a Milano per non essere riconosciuto e pensando che fosse più sicuro per la sua famiglia. Un giorno però commise un’imprudenza che gli fu fatale: ebbe infatti la malaugurata idea di tornare a Monza per recuperare le fotografie dei nipoti dalla vecchia abitazione di via Como (oggi via Prina). In quell’occasione fu però notato e denunciato da un vicino di casa. Arrestato, fu trasferito prima nelle carceri di Monza e poi a San Vittore.
La moglie Ilda, quando apprese che il marito era stato fermato, si consegnò spontaneamente a San Vittore poiché non volle accettare di lasciarlo solo: un atto d'amore assoluto. Il 6 dicembre 1943 furono caricati sul convoglio dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano per Auschwitz . Arrivati l'11 dicembre nel lager nazista, furono tradotti direttamente nelle camere a gas.
In loro ricordo è già stata posata una Pietra d’inciampo a Monza; oggi, sabato 27 ne è stata posata una seconda a Carnate, in via Barassi, di fronte alle scuole medie e al Monumento ai Caduti.
Il nipote di Casarini sulle tracce dello zio deportato
«Le Pietre d’inciampo sono una iniziativa e un’opportunità importante perchè permettono di tenere vivo il ricordo dei deportati, di quei monzesi sfortunati come mio zio, che è morto in un lager. Io ringrazio chi si è adoperato per la Pietre d’inciampo: è una cosa che ci tocca il cuore».
Sono le parole commosse di Fabrizio Zingrillo, nipote di Libero Casarini deportato e morto nel campo di Ebensee, a cui Monza oggi, sabato 27 gennaio dedica una Pietra d’inciampo che sarà posata davanti alla sua abitazione in via Carlo Prina 2.
Libero Casarini era nato nel 1913 a Colico e risiedeva a Monza, dove si era sposato ed era padre di un bambino. Svolgeva l’attività di decoratore. Era un antifascista e fu arrestato a Monza, e condotto nelle carceri di San Vittore e poi internato nel lager di Ebensee, dove ha trovato la morte il 28 gennaio 1945.
«Il mio rammarico è che il tentativo di ricostruire la sua vita nel lager è rimasta incompiuta – ha detto il nipote – Di quella pagina dolorosa che aveva riguardato lo zio Libero, in casa, non se ne parlava volentieri».
Così, Fabrizio Zingrillo si è messo sulle tracce dello zio per cercare di ricostruire le sue vicissitudini e il suo tragico destino, e ricordare il suo sacrificio. A venirgli in aiuto sono state le testimonianze scritte di chi è tornato dai campi e poi internet che gli ha permesso di portare avanti le sue ricerche. «Sono appassionato di letteratura concentrazionaria e leggendo diversi libri ho potuto mettere a confronto le diverse deportazioni del marzo 1944 e ricostruire quella dello zio». Zingrillo non ha potuto conoscere lo zio, perchè non era ancora nato, ma non ha mai smesso di cercarlo.
«Per la famiglia la sua morte è stato un trauma. Sono rimasti pochi ricordi. Ho cercato di mettermi in contatto con gli ex deportati che avevano fatto il suo stesso viaggio, Monza, San Vittore, Mauthausen e Ebensee nel marzo del 1944 ma non ho ottenuto grandi risultati. Molti poi nel frattempo sono morti» ha detto. La Pietra d’inciampo, di via Prina 2 manterrà vivo il ricordo e il sacrificio di Libero Casarini.
La famiglia di Meda che ospitò il papà della Cgil
La famiglia Viganò, durante il periodo buio delle leggi razziali, ospitò alcuni ebrei nella sua casa in via Cesare Battisti a Meda. E diede accoglienza anche al papà della Cgil, Rinaldo Rigola. Maria e Giovanni Viganò dal 1943 al 1945 diedero ospitalità ai Glucksmann, famiglia ebrea che scappò a Meda durante le persecuzioni antisemite, lasciando la sua casa in una Milano bombardata. Era composta da Temide Rigola, Andrea Glucksmann e le figlie piccole Anna e Laura. C’era anche Rinaldo Rigola, padre di Temide, che non era ebreo e aveva fondato l’antenata dell’odierna Cgil. Era diventato cieco per un incidente sul lavoro ed era accompagnato dalla badante. A ricordare in diverse occasioni questa storia è stata Gabriella Viganò, figlia di Giovanni e Maria:
«Avevo solo un anno quando sono arrivati i Gucksmann. Ho soprattutto ricordi di quando da piccola giocavo con le figlie Anna e Laura, oltre che di alcuni racconti dei miei genitori - ha detto - La nostra casa, che si affacciava su un cortile, era composta da sei locali dove vivevamo io, i miei genitori e i miei tre fratelli, la famiglia Glucksmann, Rigola e la badante, e infine un’altra famiglia di sfollati che ospitavamo».
E’ orgogliosa del comportamento dei genitori, che nonostante il pericolo non hanno rinunciato ad accogliere chi era in difficoltà:
«Sapevamo che i Glucksmann erano ebrei e durante le persecuzioni antisemite abbiamo corso un grande rischio ad ospitarli, ma sono fiera di quello che i miei genitori hanno fatto e lo comprendo pienamente. Li abbiamo accolti nonostante tutte le paure legate a quell’epoca». Andrea Glucksmann aveva un fratello di nome Eugenio, che era scappato a Cantù, ma lì era stato denunciato e poi deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, da dove non fece più ritorno. «Abbiamo salvato una parte di questa famiglia e ne siamo fieri, ma anche i vicini di casa, che probabilmente sapevano perché passavamo molto tempo insieme a loro, ci hanno aiutato con il silenzio», ha concluso.
Il rastrellamento nel manicomio di Mombello
L’orrore delle deportazioni coinvolse anche l’ospedale psichiatrico di Mombello a Limbiate, a quel tempo uno dei più grandi d’Italia con migliaia di internati.
Dalle ricerche condotte qualche anno fa dal presidente dell’Anpi Rosario Traina, è emerso che dall’ospedale psichiatrico Antonini non fu deportata solo Elda Levi Gutenberger, la limbiatese a cui è stata dedicata la prima Pietra d’Inciampo della città.
Traina ricorda che lo stesso giorno venne messo in atto un vero e proprio rastrellamento. Almeno altre tre persone furono prelevate e deportate e solo una si salvò.
Della Gutenberger, il professor Traina è riuscito a recuperare una iscrizione all’anagrafe del Comune di Limbiate del 27 aprile 1934 in cui se ne attesta la residenza, ma compare l’ignobile classificazione «razza: ebraica». Nata il 31 luglio 1894 a Milano, fu ricoverata all’ospedale psichiatrico di Mombello, da lì prelevata, in quanto ebrea e deportata. Imprigionata a San Vittore, fu inviata a Bolzano, dove morì il 31 marzo 1945 nella cella di punizione a causa delle sevizie a cui fu sottoposta dalle guardie ucraine del campo. Nel 2020 la città ha voluto rendere omaggio a questa limbiatese d’adozione dedicandole la pietra d’inciampo posata nel cortile del Municipio.
Nel 2014 l’Anpi si recò al cimitero di Bolzano dove c’è la tomba di Elda, due anni dopo il gruppo limbiatese tornò con gli studenti per ripulirla e deporre una targa.
Secondo lo storico locale Carlo Piu, anche nel manicomio di Mombello si contribuì alla Resistenza. Nel suo libro «Mombello di Limbiate» ricorda che «i volantini venivano stampati anche nella tipografia dell’ospedale psichiatrico di Mombello, dove, per evitare sospetti, si utilizzarono caratteri di stampa diversi da quelli usati normalmente nel manicomio. Il materiale clandestino, in un secondo momento, veniva portato fuori da persone che lavoravano nell’istituto».