Le testimonianze

Di leucemia si guarisce sempre di più

L’intervista a Momcilo Jankovic, il dottor sorriso: «Fondamentale sostenere il bimbo malato e i suoi familiari. Chi vince la malattia risulta poi più resiliente»

Di leucemia si guarisce sempre di più
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Gli è capitato di essere fermato per strada, in aeroporto, a qualche evento per la prevenzione. Momcilo Jankovic,73 anni, pediatra emato-oncologo, al San Gerardo di Monza dal 1982 al 2016, spalla a spalla con i professori Giuseppe Masera e Andrea Biondi, ora consulente del Centro Maria Letizia Verga, si rallegra quando è avvicinato da ex bambini suoi pazienti, guariti e poi diventati adulti, che lo riconoscono, lo salutano e lo ringraziano. Per lui, per il “Dottor Sorriso”, questo vale più di un Premio Nobel: vuol dire che di malattie oncologiche infantili si guarisce sempre di più.
«Con alcuni pazienti il rapporto dura per parecchi anni anche dopo la guarigione. Ricordo di aver curato una bambina di tre mesi: ora ha 45 anni e tre figli. Un’altra voleva, all’epoca della malattia, un cane. I genitori non erano convinti, invece la pet therapy ha aiutato: il cane ora ha 14 anni e lei, 23 anni, s’è fatta tatuare su un braccio un mio messaggio...».

Di leucemia si guarisce sempre di più

«Durante la mia carriera ho seguito oltre tremila bambini con patologie ematologiche oncologiche. La maggior parte sono guariti. Negli anni Settanta guarivano 40 malati di leucemia infantile su 100. Oggi siamo a 85 su 100. Ho seguito fino all’ultimo anche i 620 piccoli pazienti che non ce l’hanno fatta. E’ importante seguire bene i pazienti: mi sono sempre impegnato perché i piccoli pazienti fossero sereni fino alla fine. Ci sono stati casi di bambini regolarmente a scuola o in gioiosa vacanza anche cinque giorni prima di morire... ».

Non per niente è il Dottor Sorriso: «Un nome che mi ha dato la gente. Credo molto nell’empatia, cerco sempre di trasmettere fiducia e serenità. Il sorriso è il modo migliore per entrare in sintonia. Non vuol dire che devi fare il medico giullare. Ma devi comunicare serenità e normalità di vita, molto importante per un paziente che cerca la guarigione».

La guarigione a 360°

Guarigione che per Jankovic si declina secondo tre piani: «Limitandoci alle leucemie infantili, la guarigione fisica avviene quando, dopo due anni dall’interruzione delle cure, non hai avuto recidive, stai bene. Poi c’è la guarigione psicologica: importante, tant’è che fin dalla prima diagnosi mettiamo in campo servizi di sostegno psicologico al bambino e alla sua famiglia. Masera è stato in questo maestro per tutti».
Infine c’è la guarigione sociale: «E’ la più difficile da ottenere. Il bambino guarito ha diritto ad ottenere una vita sovrapponibile a quella dei suoi pari. Essendoci però ancora pochi casi di possibile ricaduta nella malattia dopo anni, questo impedisce alla maggior parte dei centri di cura di poter dire: “Sei guarito al 100%”. Ciò ha ripercussioni in tema di lavoro, assicurazioni, patente di guida: se dici “ho avuto la leucemia”, incontri difficoltà. Per questo la Corte Costituzionale ha introdotto l’oblio oncologico: a seconda dei tipi di tumore, se sono guarito dopo tot anni posso non dire di averlo avuto. Ho un ex paziente che ha felicemente conseguito il brevetto per pilota di aereo».

Sostegno per i pazienti e per la famigla

Una diagnosi di leucemia però per i genitori è una mazzata: «E’ uno tsunami. Per questo il sostegno va dato al paziente e ai suoi familiari. Lavorare sulle famiglie è fondamentale, per stimolare le loro risorse a reagire e puntare all’obiettivo: la guarigione e una qualità di vita normale. La ricerca scientifica ci sostiene su questi obiettivi. I bambini malati non cercano commiserazione, anzi. Quando poi sono guariti e cresciuti osserviamo in loro, in media, una maggiore resilienza rispetto ai coetanei. Si sono rafforzati. Anche questo ci aiuta a far vedere ai malati che in fondo al tunnel c’è luce: la malattia giustamente fa paura ma se vedi l’esperienza di chi ci è già passato riscontri che la guarigione è possibile».

Riccardo: «Ricevuta la diagnosi è stata dura. Poi la routine di cure e scuola mi ha aiutato»

«All’inizio, quando ci hanno comunicato la diagnosi, è stata dura, devo ammetterlo. Non ho parlato per una settimana, non ho mai pensato in positivo. Poi ho cercato più informazioni possibili sulla malattia, ma mi lasciavo andare. Iniziare a seguire il percorso di cura in ospedale, la sua routine, mi ha fatto bene».
Riccardo Gusmeroli, di Morbegno, studia architettura a Firenze e ha 25 anni. Nel 2013, a 13 anni, gli è stata diagnosticata la leucemia infantile.
«Ho passato un annetto all’ospedale San Gerardo. C’era sempre qualcuno dei miei familiari a Monza per me, il papà quando i turni di lavoro glielo permettevano, la mamma invece ha preso un anno di aspettativa per starmi vicina».

Riccardo Gusmeroli

Riccardo al San Gerardo ha frequentato la scuola in ospedale: «Lì ho fatto gli esami di terza media, mi hanno permesso di non perdere l’anno. Quando mi hanno dimesso era il giugno 2014. In autunno sarei dovuto andare alle scuole superiori (avevo scelto l’indirizzo geometra) ma non si sapeva se avrei potuto frequentare le lezioni, stare insieme agli altri o seguire le lezioni a distanza. Invece una settimana prima dell’inizio dell’anno scolastico mi hanno dato il via libera: è stato bello».

La scuola in ospedale, le cure: «Il ruolo e il modo di fare dei medici e di tutto il personale a Monza è stato fondamentale: mi sono sentito subito a casa. Monza rimarrà sempre nel mio cuore. Il rientro nella quotidianità ha portato qualche problemino, che poi ho superato».
«Tuttora faccio i controlli medici a Monza, una volta all’anno. Con i miei genitori non ho mai parlato molto di questa esperienza: penso che per loro sia stato terribile. Ancora adesso, quando vengo a Monza per i controlli, loro fanno finta di nulla ma leggo il terrore nei loro occhi. Ma hanno sempre cercato di non farmelo pesare»
«Pratico molto sport individuale, corro, e questo mi aiuta molto a liberare la testa dai pensieri -conclude Riccardo-. Mi sento di dire che ho una vita normale come quella di tutti i miei coetanei».
«Sicuramente ho vissuto l'adolescenza (che sto ancora vivendo, probabilmente) con meno spensieratezza e vedo tuttora una psicologa perché mentalmente è stata dura - e lo è ancora-  tornare alla vita normale, però non mi posso lamentare: differenze rispetto alla vita che svolgo io quotidianamente rispetto ai miei coetanei non ne vedo!».

Il riscatto di Marco: dal linfoma di Hodgkin all’ultra maratona

Che sia guarito lo dimostra non soltanto con la sua vita quotidiana ma con la passione per la corsa in generale e la maratona in particolare. Con qualche puntata nel campo dell’ultratrail.

Marco Allìa

, trent’anni, monzese, account manager in un’azienda brianzola di distribuzione di prodotti di  information technology, non più tardi di una decina di giorni fa ha concluso con successo la Cento chilometri del Passatore, gara podistica da Firenze a Faenza.
Non male per uno al quale quindici anni fa è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin.
«Ricordo che la diagnosi arrivò a dicembre -racconta-. Ero un ragazzino, giocavo a calcio, sono sempre stato uno sportivo».

La reazione in famiglia fu tutto sommato improntata all’equilibrio: «Siamo sempre stati positivi, ci siamo detti: è una cosa da affrontare. Tutto sommato il clima non era troppo nervoso. Sapevamo che il tipo di malattia in cui ero incappato era guaribile nel 99 per cento dei casi. L’atteggiamento della mia famiglia è sempre stato improntato alla positività, anche nei confronti di patologie intervenute successivamente sui miei cari».
Marco, abitando a Monza, per sei mesi fa la spola tra casa e San Gerardo: «Una volta alla settimana venivo ricoverato in day hospital per le terapie, poi tornavo a casa. Questo mi ha aiutato molto, tant’è che non ho perso praticamente giorni di scuola».
« In più, uno dei miei professori al Mosè Bianchi faceva anche scuola in ospedale, quindi ci siamo sintonizzati subito su come gestire lezioni, compiti e interrogazioni. Durante la terapia, piuttosto, mi è costato molto limitarmi con l’attività calcistica...».
Finite le terapie, Marco ha proseguito i controlli di follow up, come da protocolli, per i successivi cinque anni. Terminata la scuola superiore (ragioneria), si è laureato in Filosofia.
Il rapporto coi medici? «L’approccio è sempre stato molto empatico, con tutto il personale. Questo aiuta moltissimo i pazienti, soprattuo chi deve trascorrere molto tempo in ospedale, continuativamente o a tappe, come me».
Senz’altro il mix di carattere positivo, indole sportiva e clima familiare resiliente aiuta ad uscire prima e meglio dal tunnel della malattia, come sottolinea sempre il dottor Momcilo Jankovic.
Ora Marco ha obiettivi ben precisi: «Posso vantare piazzamenti buoni nella maratona: tra i risultati più recenti, sono arrivato settimo in quella di Portofino, arrivando a pari merito con la donna che ha vinto la classifica femminile della Cento chilometri del Passatore; bene anche nella maratona di Parma. Voglio rimanere al top in questa specialità saggiandomi anche su distanze più lunghe e sull’esperienza ironmen. L’obiettivo prossimo è quello di arrivare ad avere una condizione che mi permetta di partecipare alla traversata del deserto della Namibia: sono 160 chilometri circa».
Eh sì, possiamo dire che Marco è guarito.

"Allora avevamo l’1% di possibilità di farcela, non fu facile ma siamo diventati migliori"

La leucemia è una malattia che irrompe nella vita delle persone con la brutalità di un uragano lasciando ferite profonde. Eppure, ci sono storie che, pur nascendo dal dolore, si trasformano in testimonianze di speranza, consapevolezza e rinascita.
E’ il caso di Barbara Marani , nata nel 1972 a Milano e di Antonio Ventrella, bambini guariti, oggi diventati adulti.

La storia di Barbara

Quando aveva solo sei anni, una stanchezza insolita e dolori articolari frequenti hanno spinto i genitori a portarla in ospedale. La diagnosi fu sconvolgente: leucemia. «È iniziato un percorso lungo fatto di esami, ospedalizzazioni, prelievi e tanto dolore», racconta. La sua infanzia è stata una lotta quotidiana, affrontata anche grazie alla forza dei suoi genitori. Ma il corpo, come la mente, non dimentica. A distanza di trent’anni, Barbara ha cominciato a soffrire di dolori alla schiena invalidanti. «Era come se il dolore fisico fosse la voce di qualcosa che non avevo ancora affrontato. Una mia amica psicologa mi parlava da tempo dell’Emdr, un trattamento per il disturbo post-traumatico da stress. Ero in preda ai dubbi, ma alla fine ho contattato una terapeuta». E così con la dottoressa Giada Maslovaric Barbara ha compreso il terrore infantile, la paura della morte. «Ogni ricordo ha trovato il suo posto e io mi sono sentita più leggera», dice. Oggi vive sul Lago Maggiore con suo marito, ha scritto un libro e la fisioterapia unita al percorso psicologico hanno quasi eliminato il mal di schiena. «Mi sento una persona migliore per me stessa e per gli altri. Guarire è anche questo. Non dimenticherò mai chi non ce l’ha fatta, ma ogni giorno è un dono e oggi sono qui per viverlo a pieno»».

Barbara Marani

La vicenda di Antonio

Antonio Ventrella vive a Origgio e lavora come fisioterapista. La sua storia comincia nel 1974, quando a soli quattro anni gli viene diagnosticata la leucemia. «Il primario disse alla mia famiglia di riportarmi a casa. Le possibilità di guarigione erano dell’1%». Ma il destino ha giocato un ruolo inaspettato. Il primario ebbe un incidente e uno specializzando consigliò il trasferimento alla Clinica De Marchi di Milano. «Sono stato ricoverato un anno e quattro mesi. Fu lì che conobbi il dottor Momcilo Jankovic, il “dottor Sorriso”, allora solo un tirocinante. Quando nel 1985 mi dichiararono guarito, ero diventato un “lungo vivente”, come ci definivano: quelli che si ostinavano a non morire». All’epoca sopravvivere era un miracolo, ma crescere da «guarito» non era semplice. «Non sono potuto andare a scuola per i primi tre anni e quando tornai ero pallido, pelato, gonfio per il cortisone. Non c’erano psicologi scolastici e bambini non erano pronti ad accogliere uno come me». Quegli anni di isolamento hanno lasciato un segno profondo, ma anche costruito un’identità. «Ogni giorno cerco di aiutare chi soffre. Capisco i miei pazienti, i loro dolori, le loro paure». Antonio dal giorno della sua guarigione ha continuato a sostenere l’Associazione Maria Letizia Verga – personalmente incontrata durante il ricovero – e il dottor Jankovic, che ricorda ogni suo compleanno, onomastico e anniversario di guarigione. «Lui è stato la mia famiglia quando l’orario di visita era solo un’ora al giorno. Mi ha tenuto in vita nel corpo e nell’anima». E da qui forse è arrivata anche una sorta di resilienza nell’affrontare la vita. «I sopravvissuti si ammala meno - racconta Antonio - ma siamo soprattutto più sensibili, attenti all’altro».

Antonio Ventrella

Alessandro è tornato in ospedale da aspirante ricercatore per l’alternanza scuola lavoro

Al posto del camice da degenza, stavolta ha indossato quello da ricercatore.
È una bellissima storia di tenacia, impegno e caparbietà quella di Alessandro Didoni, 17 anni (18 tra qualche mese), che è tornato a svolgere il periodo di alternanza scuola-lavoro proprio nello stesso ospedale, il San Gerardo di Monza, che lo aveva curato qualche mese prima.

Alessandro Didoni

Appassionato di calcio (e di Monza e Inter in particolare), Alessandro non ha perso mai una partita, anche quando stava combattendo la sua battaglia più importante, seguito dai medici del Centro di Ematologia pediatrica Maria Letizia Verga della fondazione Irccs San Gerardo.
A settembre dello scorso anno, infatti, gli è stato diagnosticato il linfoma di Hodgkin e da quel momento ha dovuto interrompere la sua routine e iniziare un periodo di cure per un anno. Operato a fine ottobre, ha poi iniziato i cicli di chemioterapia. In tutto questo non ha mai smesso di studiare grazie alla possibilità offerta dalla scuola a distanza quando era a casa e dal letto di ospedale in presenza con i docenti quando era ricoverato.
Quegli ambienti del Centro di cura sono diventati famigliari e lui, ogni volta che entra in quei reparti, ha un sorriso per tutti: medici, infermieri e per tutto il personale sanitario che gli ha dimostrato attenzione e cura, che lui ha ricambiato con il suo gran cuore.
Alessandro è iscritto al quarto anno dell’istituto Hensemberger di Monza, indirizzo Biotecnologie sanitarie e quando ha dovuto scegliere dove effettuare il percorso di alternanza scuola-lavoro non ha avuto dubbi. L’opportunità è arrivata proprio dal luogo in cui era stato preso in cura. Dal letto di ospedale al banco di laboratorio del centro di ricerca della Fondazione Tettamanti, con quel camice bianco  nei  laboratori tecnici si è subito sentito a suo agio.

«Sono rimasto davvero entusiasta del lavoro svolto in quella settimana. E’ stato molto interessante per me poter toccare con mano e vedere quanto studio c’è dietro in un laboratorio di ricerca e poi il team che mi ha seguito mi ha fatto capire tante cose, mi spiegavano in modo molto chiaro tutti i passaggi da seguire - ha raccontato al termine dell’esperienza - Per me è stato entusiasmante e anzi ha aperto un po' i miei pensieri sulle mie scelte future. Ho ancora un anno davanti prima di decidere quale indirizzo universitario individuare, ma questa esperienza mi è servita molto. Sono rimasto davvero contento. Un plauso davvero a questo Centro di eccellenza: posso dire che questo periodo di alternanza scuola-lavoro è stato molto utile per me».

Il 17enne, finito il periodo di alternanza è tornato in classe, accolto calorosamente dai suoi compagni e docenti dopo quasi un anno di assenza su quei banchi.

«ll progetto è consistito nell'acquisizione di alcune tecniche biotecnologiche per poter ingegnerizzare geneticamente le cellule del sistema immunitario in un approccio di immunoterapia con cellule Car-T -  ha ribadito la professoressa Marta Serafini del Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano Bicocca e responsabile dell’Unità Cellule Staminali e immunoterapia della Fondazione Tettamanti - Alessandro ha voluto anche accostarsi alle tecniche molecolari utilizzate quotidianamente per la diagnosi di alcune patologie ematologiche. Si è dimostrato uno studente brillante ed estremamente preparato nell'ambito delle scienze biologiche e biotecnologiche e faccio le mie congratulazioni a lui e al suo istituto».

Ripresa la scuola e le amicizie, manca solo un tassello per Alessandro, che da sempre è amante di tutti gli sport. Non fa mistero di voler e riprendere a giocare a calcio il prossimo anno, se tutto va bene, lo sport che pratica fin da quando è piccolo. E sicuramente con la sua tenacia, raggiungerà anche questo obiettivo! In bocca al lupo Alessandro!

Tommaso, da bimbo in cura a scienziato di Sport Therapy

Aveva solo 3 anni e sognava un giorno di giocare nel Milan, quando si è trovato a combattere contro la leucemia insieme alla sua famiglia, ai medici e agli infermieri del reparto di Ematologia Pediatrica a Monza e agli amici del Comitato Maria Letizia Verga.
Tommaso Moriggi è stato uno dei primi trapiantati e crescendo, ha sempre sperato un giorno di poter rendere tutto il bene e così è stato: oggi è uno scienziato motorio del team Sport Therapy ed è l’artefice di quella terapia dello sport che permette ai bambini in cura al Verga di praticare diverse attività.

Tommaso Moriggi

Il progetto, nato nel 2017 grazie al sostegno del Comitato Maria Letizia Verga, ha coinvolto 650 atleti con 30.000 allenamenti e trattamenti osteopatici.
L’allenamento di precisione avviene tre volte a settimana, con sedute per circa 20-50 minuti, comprendendo l’esercizio cardio-polmonare, di forza, di equilibrio e di allungamento. I ricercatori di Sport Therapy vogliono dimostrare che l’allenamento svolto in ospedale sin dalle prime fasi del trattamento antitumorale può mantenere efficienti diversi sistemi come quello cardio-respiratorio, muscolo-scheletrico e osseo dei ragazzi. All'inter del programma Sport Therapy sono presenti 6 gesti tecnici: calcio, arrampicata, golf, bike no pedals, animal flow e danza. E ora arriverà anche il Baskin, grazie a una raccolta fondi di Sport4All, un’associazione che promuove il basket inclusivo guidato dal presidente Luca Porta.

«Per finanziare il progetto, che ha la durata di tre anni, servivano 18mila euro, un obiettivo che abbiamo superato: grazie a una sottoscrizione a premi abbiamo venduto 19mila biglietti, raccogliendo 19mila euro», ha spiegato Porta.

«L’idea della sport therapy è nata anni fa, dopo che Tommaso, un paziente che a tre anni aveva scoperto di avere la leucemia mieloide, aveva riscontrato delle difficoltà a praticare sport dopo aver subito il trapianto - ha spiegato la dottoressa Francesca Lanfranconi, che al Centro Maria Letizia Verga coordina un trial clinico europeo multicentrico dedicato all’allenamento del bambino con ematopatie maligne - Diventato ragazzo, con l’aiuto dei pediatri e della Fondazione ha pensato a questo progetto che permette anche ai bambini malati di praticare sport».

E dopo l’incontro con Sport4All è nata l’idea di inserire tra le attività proposte ai giovani pazienti anche il baskin, come gesto tecnico. «Abbiamo deciso di formare due istruttori che fanno già parte del team della sport therapy - ha aggiunto - Una di loro, Camilla, proprio grazie al sostegno di Sport4All è diventata la titolare del gesto tecnico baskin nel Centro, dove ha scoperto che una delle pazienti, Marianna, sottoposta a trapianto nel 2020, praticava proprio questa bellissima disciplina».

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