Sanità

Batteri multiresistenti, long Covid e IA: le sfide della medicina

L’intervista a Paolo Bonfanti, direttore della Struttura complessa di Malattie Infettive dell’Irccs San Gerardo

Batteri multiresistenti, long Covid e IA: le sfide della medicina
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La pandemia da batteri multiresistenti, una vera emergenza mondiale che vede l’Italia, nonostante la sua posizione nel G7, tra gli ultimi Paesi europei per diffusione di questa emergenza. Le sfide post Covid visto che quasi cinque anni dopo la sua comparsa l’epidemia non è stata ancora completamente superata e il long Covid rappresenta una condizione spesso trascurata, con pazienti colpiti che continuano a sperimentare sequele debilitanti senza adeguate risposte dai centri clinici. Infine l'Intelligenza Artificiale, un alleato nella lotta contro le malattie infettive che sta rapidamente cambiando il volto della medicina. Sebbene ci sia spesso diffidenza nei suoi confronti, ritenendola una potenziale sostituta del medico, l’IA si dimostra un alleato prezioso nella previsione e gestione di eventi epidemici.

Batteri multiresistenti, long Covid e IA: le sfide della medicina

Temi quanto mai attuali, in alcuni casi sulla bocca di molti, in altri non agli onori della cronaca come meriterebbero, trattati nel corso della terza edizione del Convegno «ACTA Reboot - Attualità e Controversie in Terapia Antinfettiva» da relatori di primo piano del panorama sanitario nazionale. Tra questi il professor Paolo Bonfanti del Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi Milano Bicocca, direttore della Struttura complessa di Malattie Infettive e del Dipartimento di Area medica della Fondazione Irccs San Gerardo dei Tintori di Monza.

Pandemia da batteri multiresistenti: una vera emergenza mondiale

La crescente diffusione di batteri multiresistenti rappresenta una minaccia globale che necessita di un’urgente attenzione. Secondo le stime, si prevede che entro il 2050 ben 50 milioni di persone potrebbero perdere la vita a causa di microrganismi resistenti agli antibiotici. E l’Italia si colloca tra gli ultimi Paesi europei per diffusione di questa emergenza.
«E’ un fenomeno di salute globale, un problema mondiale - ha esordito Bonfanti - La ricaduta pratica è che se un microorganismo diventa resistente agli antibiotici, la cura diventa molto difficile. E’ un problema di sanità pubblica. L’aspetto un po’ atipico è che di solito questi problemi sono molto diffusi in Paesi in via di sviluppo, mentre in quelli più ricchi hanno numeri più bassi: l’anomalia è che l’Italia ha numeri molto alti, è il fanalino di coda in Europa 27 e si confronta come numeri con Paesi in via di sviluppo. E’ un problema di sistema. Per sconfiggere un fenomeno di questo tipo conta anche quello che il singolo professionista fa. Sta per iniziare la stagione influenzale, contro un virus l’antibiotico non funziona e quindi bisogna evitare di assumere antibiotici. Ma più ancora è un problema di sistema. E’ stata recentemente pubblicata la classifica degli ospedali italiani e tra gli indicatori scelti questa partita è esclusa. Come mai? Credo un po’ perché sia ancora sottovalutato. In Italia abbiamo programmi da 7/8 anni, mentre in altri Paesi da molto più tempo. Manca l’input che spinga tutti i componenti del comparto sanitario a misurarsi sul problema. Un problema grosso che rende difficile il trattamento delle infezioni: curare una infezione ospedaliera in Olanda è molto più semplice che in Italia perché non hanno questa diffusione di microorganismi resistenti».
Bonfanti poi solleva un’altra questione. «L’OMS dice che c’è diffusione anche nel mondo animale e quindi pone il problema dell’uso di antibiotici negli allevamenti: se non controlliamo quella parte lì la battaglia non la vinceremo mai».
Una situazione figlia dell’abuso di antibiotici in questi decenni. Quanto ci vorrebbe per risolverlo se partissimo oggi con un nuovo approccio? «Gli effetti si misurano in anni, non in qualche mese. Noi potremmo ridurre gli effetti nel giro di 4-5 anni se ci fosse una nuova impostazione: la Regione fa molto sul campo, ma il problema è nazionale, ci sono degli strumenti, ma ci vorrebbero più investimenti per invertire la rotta».

Le sfide post Covid: un panorama complesso

Quasi cinque anni dopo la comparsa del Covid-19, l’epidemia non è stata ancora completamente superata. Il long Covid rappresenta una condizione spesso trascurata, con pazienti colpiti che continuano a sperimentare sequele debilitanti senza adeguate risposte dai centri clinici.
«Il tema è un po’ vittima della confusione che aleggiava su questa sindrome. All’inizio per long Covid venivano considerati tutti i sintomi che si registravano qualche settimana dopo. Oggi sappiamo che non è così, c’è una definizione più precisa e le persone affette meno di quanto si pensava. Ma ci sono e in questo momento coloro che hanno sintomi importanti (giovani che fanno fatica anche a riprendere l’attività lavorativa o quotidiana) hanno difficoltà a trovare interlocutori. I centri che se ne occupano sono pochissimi e non “certificati”. Stiamo lavorando su questo, si è creato un tavolo coordinato dalla Regione per fare una mappatura dei centri che se ne occupano in modo che le persone sappiano a chi rivolgersi. Un altro aspetto è che per arrivare a una diagnosi si fanno tanti esami e i costi sono alti: con la Regione si sta valutando se esiste uno spazio per reintrodurre l’esenzione per chi ne è affetto. C’era fino al 2023 a livello nazionale, ma poi è stata tolta».
Ma quali sono i sintomi del long Covid? «Innanzitutto esiste una definizione temporale: si ha il long Covid quando i sintomi ci sono dopo tre mesi dalla fase acuta e questi sintomi devono durare per almeno due mesi. I sintomi sono vari: nelle prima fase della pandemia una delle manifestazione erano i disturbi di tipo polmonare, forme gravi di polmoniti guarivano, ma permanevano disturbi respiratori per mesi. Oggi di queste forme ce ne sono molto meno. Vediamo, invece, forme di due tipi: una stanchezza cronica, con persone che, dopo aver fatto il Covid, hanno una stanchezza debilitante tale da non riuscire più a lavorare. A questa a volte si associa una forma che interessa anche aspetti neurologici e neurocognitivi: a volte le persone fanno fatica a rimanere concentrate, lamentano una perdita di memoria, disturbi anche invalidanti che possono durare anni. I numeri non sono quelli che comparivano sui giornali anni fa, sono inferiori, ma ci sono e non sono pochi. Che ordine di grandezza? In Lombardia stiamo cercando di fare una stima, all’estero è stata fatta relativa al 2024 e, secondo questi studi, circa l’1% di coloro che hanno fatto il Covid hanno il long Covid. A mio avviso è una stima plausibile».
Sul cosa fare, il professor Bonfanti ha le idee chiare. «Innanzitutto che ci sia qualcuno che si prenda carico di queste persone. Poi ci sono percorsi riabilitativi per la stanchezza cronica che migliorano il quadro e terapie neuroriabilitative. A livello farmacologico la sperimentazione è in corso e i dati dimostrano miglioramenti per chi inizia un percorso riabilitativo. La cosa più importante, ed è il lavoro in corso con la Regione, è censire per dire ai cittadini che ne sono affetti e ai medici di poter andare in questo centro o in quell’altro».

Intelligenza Artificiale: un alleato nella lotta contro le malattie infettive

La tecnologia dell’Intelligenza Artificiale sta rapidamente cambiando il volto della medicina, e in particolare delle malattie infettive. Sebbene ci sia spesso diffidenza nei suoi confronti, ritenendola una potenziale sostituta del medico, l’IA si dimostra un alleato prezioso nella previsione e gestione di eventi epidemici.

«I sistemi di IA sono strumenti efficaci nel cercare di stimare la probabilità che un determinato evento si verifichi. Una metodologia basata su grandi numeri e statistica. Le applicazioni in medicina sono tante, alcune molto usate e con il Covid c’è stato un incremento: dalla Cina sono arrivati dei sistemi applicati a Radiologia che avendo incamerato nel software centinaia e migliaia di immagini radiografiche di polmoniti da Covid permettevano di individuare forme da Covid. Si è discusso di sistemi che siano in grado di prevedere prossimi eventi pandemici: si usano metodi di IA per prevedere le pandemie e questi sistemi si avvicinano alle stime anche se l’algoritmo non è ancora perfetto. In alcuni campi l’IA è capace di superare l’uomo nelle previsioni, in questo campo c’è ancora da lavorare, ma si fanno passi in avanti. Penso che sia uno strumento e come tutti rimane in mano all’uomo. Si arriva a un punto in cui i sistemi hanno una capacità di predire molto alta, ma le decisioni da prendere restano in mano all’uomo».
Il professor Bonfanti è consapevole dell’esistenza di un ambito molto delicato. «L’argomento diventa delicato quando c’è il tema del fine vita. Una delle domande più frequenti in medicina è quando bisogna fermarsi con le cure per non arrivare all’accanimento, come discutere di questa cosa con i familiari. Si stanno sviluppando dei sistemi che ipotizzano la possibilità di sopravvivenza di un malato con certe caratteristiche, età, stile di vita, alimentazione. Ecco mi rendo conto che nel fine vita conta la relazione tra medico, paziente e familiare che non potrà mai essere ricalcata da un sistema che calcola la possibilità di sopravvivenza. Resta uno strumento che dice una cosa, poi sta a me parlare con te, ascoltare i tuoi desideri, la tua volontà: non ci può essere un automatismo. Ho paura di una delega in bianco? Io sono spaventato dal fatto che in sanità c’è anche il tema delle risorse economiche. Non vorrei mai che strumenti di questo tipo, che si limitano a stimare probabilità, una stima non una certezza, in ambiti in cui le risorse economiche non sono infinite possano influenzare le decisioni sul quanto investire. In ambiti che comportano scelte etiche bisognerà stabilire delle regole, mentre in altri campi ben venga. Se l’IA mi dice che in quella radiografia c’è quella cosa lì che non vedi (perché l’uomo non è infallibile), ben venga. Ben venga tutto quello che è di supporto alla diagnosi e alla diagnosi più precisa».

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