Carate Brianza

Dal Pakistan all’Italia per far dialogare due culture: «Il mio primo passo dopo tredici anni di carcere...»

Abbiamo incontrato Arshad Mohammad, 46 anni, titolare dell’agenzia di servizi di immigrazione in via Donizetti

Dal Pakistan all’Italia per far dialogare due culture: «Il  mio primo passo dopo  tredici anni di carcere...»
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«Primo passo» è il nome che ha scelto di dare alla sua agenzia di servizi all’immigrazione che da un paio d’anni ha aperto in città in via Donizetti a Carate Brianza per dare supporto e voce a «chi non ha voce», con l’obbiettivo di «mettere in piedi» un ponte immaginario che possa favorire una sana convivenza degli stranieri che arrivano in Italia.

Dal Pakistan all’Italia per far dialogare due culture: «Il mio primo passo dopo tredici anni di carcere...»

Ma per lui, Arshad Mohammad, classe 1978, pakistano del Distretto di Gurjat, quegli uffici dove ha scelto di lavorare rappresentano simbolicamente anche il «primo passo» di un percorso di riscatto personale, che ha messo alle spalle tredici anni di carcere scontati per concorso in omicidio dopo una violenta rissa di gruppo durante la quale perse la vita un suo connazionale.

Quel percorso, iniziato proprio dietro le sbarre della casa circondariale di Volterra, è diventato anche un libro dove Arshad ha scelto di mettersi a nudo, raccontando pagina dopo pagina il riappropriarsi di sé e della sua dignità di uomo conquistati insieme a un diploma di geometra e una laurea triennale in Comunicazione Interculturale conseguiti durante gli anni di reclusione. Oggi, il 46enne imprenditore pakistano è diventato testimone di un impegno culturale e sociale verso i suoi connazionali, in una prospettiva di integrazione invocata da più parti, ma sempre più difficile e irta di difficoltà e nodi intricatissimi da sciogliere.

L'arrivo in Italia

In Italia Arshad Mohammad ci era arrivato quando aveva 21 anni, nel 2000, dopo aver abbandonato gli studi in Pakistan al quarto anno di Università costretto per le difficoltà economiche della sua famiglia a mettere definitivamente nel cassetto il sogno che coltivava fin da bambino di diventare medico. Ha lavorato prima come bracciante agricolo in provincia di Parma e poi, dopo avere ottenuto il permesso di soggiorno, in una fabbrica metalmeccanica come saldatore nel Mantovano.

La svolta, nell’agosto del 2008, quando per lui si aprirono le porte del carcere. Anni duri, lontano dai suoi affetti, nei quali però è riuscito a trovare la forza di iniziare un percorso sincero di pentimento e crescita personale, sia attraverso l’impegno nello studio, sia grazie all’esperienza del teatro a fianco del grande regista Armando Punzo che lo ha portato a calcare i palcoscenici dei più famosi teatri d’Italia: dal Petruzzelli di Bari al teatro Verdi di Pisa.
In carcere Arshad viene raggiunto anche dalla notizia dell’assassinio del padre in Pakistan, vittima di una sanguinosa faida. Per lui è l’ennesimo colpo durissimo da affrontare in un turbinio di emozioni che nel libro ha voluto fissare in una struggente lettera rivolta proprio al papà scomparso ma per il quale, con grande dignità, non ha mai chiesto vendetta ma giustizia.

«Oggi ho imparato a usare la penna, la parola, il dialogo», ci racconta dietro la scrivania del suo ufficio in città che condivide con Giacomo Elio Bonfadini, presidente dell’associazione umanitaria dei diritti e dell’integrazione Aaudi.

Il libro

Nel libro, rigorosamente scritto in perfetto italiano, Arshad Mohammad ha voluto provare a mettere in ordine modelli culturali diversi indicando la via della «convivenza» come soluzione per una comunità come quella pakistana che in Italia (la comunità pakistana d’Italia è la più grande dell’Unione Europea, ndr), ha conosciuto una crescita esponenziale nell’ultima decade, con un salto dalle 90 mila presenze del 2012 alle 122 mila nel 2021.

«Il libro - spiega - si rivolge sia agli italiani che intendono conoscere i costumi e le tradizioni dei pakistani in Italia, sia a questi ultimi che devono conciliare le loro credenze religiose con una società laica nella quale convivono fedi diverse. I pakistani - aggiunge ancora - si disitnguono qui per inestà e capacità lavorative che li rendono meritevoli della stima e del rispertto degli italiani. Ma ho voluto porre l’accento anche sulla inevitabile difficoltà che molti connazionali incotnrano confrontandosi con i costumi di una società occidentale. Sono convinto che queste difficoltà - scrive Arshad - si possano superare respingendo la pretesa di tanti di una integrazione per scegliere invece la via della convivenza civile che permetta a italiani e pakistani di vivere gli uni accanto agli altri, senza venire meno alle rispettive tradizioni, sociali, culturali o religiose. La convivenza però esige la reciproca conoscenza fra le due culture, che metta da parte la diffidenza reciproca».
Innamorato della sua terra e orgogliosissimo delle sue origini, nel libro - il cui ricavato viene devoluto a Just For Umanity, associazione umanitaria - Arshad non ha però risparmiato critiche alla corruzione della sua gente e agli scarsi invenstimenti in termini di educazione e cultura: «La maggior parte delle ragazzine pakistante fra i 7 e 15 anni non è mai entrata in u na scuola. ma finché una don na non avrà diritto di studiare, la nostra società rimarrà sempre indietro...».
Oggi quella rinascita iniziata tra le mura del carcere è diventata bagaglio di esperienze a servizio dei tanti immigrati che arrivano in Italia e in Brianza: «No, non mi sento arrivato - dice Arshad- Questo è solo il “primo passo” per me, ma sono orgoglioso di quello che ho fatto e di ciò che sto facendo...».

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