La testimonianza

«I nostri figli massacrati di botte senza motivo, abbiamo fondato un’associazione per la sicurezza»

I dati sulle baby gang spaventano. All’incontro sulla «Generazione Rabbia» opinioni e proposte

«I nostri figli massacrati di botte senza motivo, abbiamo fondato un’associazione per la sicurezza»
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Il clima di degrado e paura nei quartieri della movida non è un’eccezione, ma una realtà quotidiana. Le baby gang, gruppi di giovanissimi – spesso minorenni – dediti a violenze, furti e intimidazioni, stanno trasformando le notti del fine settimana in un incubo per residenti e giovani in cerca di divertimento. I dati forniti nel 2024 dal Ministero della Pubblica Sicurezza parlano chiaro: tra il 2022 e il 2023, le denunce per reati commessi da minori sono schizzate: +75% per estorsione, +48,55% per risse con lesioni, +23% per minacce.

Un incontro per parlare di Generazione Rabbia

Tra le vittime di questa nuova assurda normalità ci sono i figli di Maria Cristina e Alfredo, due ragazzi di sedici anni brutalmente aggrediti, senza alcun motivo, da una baby gang all'Arco della Pace a Milano la sera del 7 febbraio scorso. I genitori hanno portato la loro testimonianza durante la serata di mercoledì della scorsa settimana organizzata presso l’Istituto Leone Dehon, dedicata alla cosiddetta «generazione rabbia».

L’evento, promosso da Martina Sassoli, consigliera regionale, e Francesco Cirillo, consigliere comunale, dal titolo «Che ne sanno i Duemila? Viaggio nella Generazione Rabbia», ha riunito diverse figure autorevoli, tra cui la sottosegretaria di Regione Lombardia allo sport e ai giovani Federica Picchi, l’avvocato Marco Negrini, presidente della Camera penale di Monza, don Alessio Albertini, parroco della Comunità pastorale di Trezzo, l’avvocata penalista minorile Renata D’Amico e don Claudio Burgio, cappellano dell’istituto penale minorile Beccaria di Milano. L’incontro è stato pensato non per parlare ai giovani, ma agli adulti, che hanno abdicato al loro ruolo di guide, rinunciando alla responsabilità di crescere una generazione sana, con conseguenze preoccupanti a livello sociale.

L’aggressione e le conseguenze

«Mio figlio è stato aggredito senza motivo da una decina di ragazzi giovanissimi – racconta Maria Cristina – È tornato a casa con il labbro spaccato, il volto tumefatto ed ecchimosi su tutto il corpo. L’amico di mio figlio, invece, ha avuto un’emorragia alla testa dopo essere stato colpito con un casco, una bottiglia di amaro, calci e pugni». Alfredo, padre del secondo ragazzo aggredito, aggiunge: «Mio figlio ha seriamente rischiato danni irreparabili. È tornato a scuola, ha ripreso la sua quotidianità, ma quello che ha subito ha segnato lui e cambiato me per sempre».

I fatti risalgono alla serata del 7 febbraio, quando i due ragazzi, usciti da un locale insieme ad altri tre compagni di scuola, sono stati accerchiati da una decina di giovani. «Mio figlio non li conosceva. Li ha descritti come ragazzi forse un po’ più grandi di loro – spiega Maria Cristina –. Gli hanno chiesto una sigaretta, lui ha risposto di non fumare, e da lì è iniziata l’aggressione». Alfredo ricorda con sgomento l’indifferenza generale di quella sera: «Eravamo terrorizzati, abbiamo fatto una doccia fredda di consapevolezza». La stessa che evidentemente manca non solo tra i ragazzi rispetto alle conseguenze delle loro azioni, ma anche tra gli adulti che la sera dell’aggressione, quando Alfredo è arrivato sul posto, «erano comodamente seduti in piazza a fare aperitivo, forse avendo anche goduto dello “spettacolo” della quasi morte di mio figlio senza fare niente».

Dalla rabbia all’azione

Dal dolore e dalla rabbia è nata la reazione per dare risposte concrete. Con il sostegno di Mariangela Padalino, consigliera comunale di Milano, che aveva in più occasioni sollevato con forza il tema della sicurezza a Palazzo Marino, Maria Cristina e Alfredo hanno lanciato una petizione per chiedere presidi notturni della Polizia locale nelle zone a rischio. «Chiedevamo due pattuglie fisse dalle 20 alle 4, da giovedì a domenica, e le nostre richieste sono state ascoltate», spiegano. Ma non si sono fermati qui. Hanno fondato l’associazione «Io non ho paura del buio», un progetto senza scopo di lucro che punta a prevenire la violenza tra i giovani attraverso storie di rispetto, inclusione e solidarietà.

«L’associazione opererà su tutto il territorio lombardo – spiegano i genitori – incontrando i giovani nei luoghi che vivono ogni giorno: scuole, parrocchie, centri aggregativi per parlare delle conseguenze umane e sociali di gesti così violenti». Alfredo, concludendo, riflette: «La violenza tra i ragazzi è un’ombra che si posa su tutti noi e colpisce nel punto più vulnerabile: la sicurezza dei nostri figli». L’associazione è già operativa e chiunque volesse dare il proprio supporto o richiedere maggiori informazioni lo può fare all’indirizzo iononhopauradelbuio@gmail.com.

«Al Beccaria non solo figli di periferie disagiate o stranieri, ma anche ragazzi di buona famiglia»

«Non esistono cattivi ragazzi, lo dico da tempo e lo ripeto oggi». E’ con questa affermazione disarmante che don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano e autore del libro omonimo, ha aperto il suo intervento alla conferenza «Che ne sanno i Duemila? Viaggio nella Generazione Rabbia», tenutasi mercoledì all’Istituto Leone Dehon.

Don Burgio, riflettendo sulle sfide degli adolescenti tra solitudine e la pressione di una società che fatica ad accoglierli, ha sfatato un luogo comune: «I ragazzi del Beccaria non sono tutti stranieri o figli di periferie disagiate. Tra loro ci sono anche “bravi ragazzi” di “buone famiglie”, spesso incredule di avere un figlio in carcere». La loro rabbia nasce prima di tutto da un disprezzo di sé, dall'ansia di non corrispondere alle aspettative.
La soluzione? «Infondere fiducia. Dirgli che un fallimento, grande o piccolo, non è la fine». Ai giovani detenuti che gli chiedono perché li visita, don Claudio risponde sempre: «Sei finito in carcere, non sei finito». Denuncia poi la medicalizzazione del disagio. «Psicofarmaci e stabilizzanti spesso sostituiscono un’azione educativa che noi adulti non sappiamo più fare». La rabbia, invece, potrebbe essere un Kairos - un tempo opportuno - per «scoprirsi, capire da dove viene quel dolore e dove andare nella vita». Ma quando mancano guide, quella stessa rabbia si trasforma in autodistruzione: «Tra i 18 e i 25 anni, in carcere, gli atti autoaggressivi sono frequenti. E il paradosso è che molti suicidi avvengono a pochi mesi dalla scarcerazione» - racconta don Claudio - «il terrore di uscire e non avere un posto dove andare, o persone che li aspettano, porta i ragazzi a preferire la certezza della morte». Don Alessio Albertini, parroco della Comunità pastorale di Trezzo, completa il quadro: «Sono figli del malessere del benessere, vittime di una società performante che li lascia emotivamente analfabeti». E il digitale? «Un rifugio in una vita irreale che noi stessi gli abbiamo insegnato a preferire quando per tenerli buoni da bambini, gli piazzavamo un tablet in mano invece di educarli all’attesa, alla noia, alla relazione» conclude il parroco. «La vera sfida non è insegnare a perdere, ma a imparare dal perdere. Uno sbaglio non ci rende sbagliati». Un messaggio che risuona soprattutto per chi lavora con i giovani più fragili, come quelli del Beccaria. «La rabbia può essere un’occasione», ripete don Burgio «ma serve qualcuno che li aiuti a leggerla, senza colpevolizzarli».

«Non serve solo assistenza al minore fragile, ma anche ai genitori che si trovano in difficoltà»

L'avvocato Marco Negrini, presidente della Camera Penale di Monza, traccia un ritratto complesso dei minorenni che approdano negli studi legali: «Sono diversissimi tra loro, ma accomunati da uno sguardo arrabbiato. È il loro modo di farsi ascoltare in un mondo che spesso li ignora».

Contro la tendenza a colpevolizzare i genitori, Negrini invita a un'analisi più sfumata: «Le fragilità culturali ed economiche creano un effetto domino sui ragazzi. Ma proprio la famiglia, spesso indicata come causa, può diventare una risorsa». La proposta è chiara: «più che un percorso di assistenza al minore fragile, la chiave sta nell’assistenza dei genitori in difficoltà. Il tribunale arriva quando il danno è fatto, e la scuola da sola non basta».

Un paradosso emerge con forza: «I ragazzi sviluppano una mente velocissima grazie agli smartphone, ma manca il pensiero critico, la capacità di distinguere il giusto dallo sbagliato che può derivare solo dall’informazione, oggi assente sulle principali piattaforme digitali su cui si muovono i ragazzi».

Sulla proposta di abbassare l'imputabilità a 12 anni, Negrini è netto: «È una risposta populista alla paura alimentata dalla politica. La scienza ci dice che sotto i 14 anni non c'è maturità per comprendere il disvalore delle azioni. Bisogna abbracciare punizione e comprensione allo stesso modo».

Di fronte alla possibilità di chiudere i carceri minorili l'avvocatessa penalista Renata D'Amico, tutrice volontaria di minori non accompagnati, aggiunge: «Gli IPM (Istituti Penali per Minorenni) non vanno chiusi. Funzionano grazie a operatori competenti, ma devono essere rafforzati i legami con il territorio». La sua esperienza con i giovani migranti non accompagnati è rivelatrice: «Vogliono riscattare un passato difficile. La buona volontà c'è: ciò che manca sono opportunità concrete».

Entrambi gli avvocati convergono su un punto: la repressione, a volte facile da mettere in pratica, non basta. «Serve un patto sociale che unisca scuola, servizi sociali e famiglie – conclude Negrini – Per trasformare la rabbia in energia positiva, servono adulti capaci di aiutare i ragazzi a canalizzarla».

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