Esclusiva

«La fine di un incubo, ma adesso chi mi ripaga per l’inferno che ho subito?»

Lo sfogo di Marco Radice, indagato nell’ambito dell’inchiesta Seregnopoli. A febbraio la sentenza di non luogo a procedere

«La fine di un incubo, ma adesso chi mi ripaga per l’inferno che ho subito?»
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«Cinque anni e mezzo per avere giustizia sono un’infinità per un cittadino che non ha percepito un euro in più del proprio stipendio. Ho trascorso un periodo infernale e, nonostante non fosse stata emessa alcuna sentenza nei miei confronti, sul luogo di lavoro molti mi vedevano come un appestato, si voltavano dall’altra parte per non salutarmi. E’ stato terribile, si sono anche aggravati i miei problemi di salute legati alla depressione. C’è stato un momento in cui ho davvero pensato che per me fosse tutto finito. Finalmente è stato riconosciuto che non ho commesso alcun reato».

Il lentatese Marco Radice indagato nell’inchiesta Seregnopoli

Emergono tutta l’angoscia e l’amarezza che ha provato in questi ultimi difficilissimi anni dalle parole di Marco Radice, 60enne di Lentate sul Seveso, dal 1996 dipendente del Comune di Seregno, rimasto coinvolto, suo malgrado, nella maxi inchiesta Seregnopoli che nel settembre 2017 culminò con l’arresto, tra gli altri, dell’allora sindaco Edoardo Mazza. Una vicenda che portò alla luce dinamiche di corruzione e mazzette nell’ambito dell’urbanistica, suscitando scalpore, indignazione e anche rabbia in tutta la città. Ma il nome di Radice, fino al novembre 2017 responsabile dell’Ufficio Stato civile e attualmente impiegato nella Polizia Locale, dove svolge mansioni non a contatto con il pubblico, è apparso nella lista degli indagati per corruzione per motivi non legati al filone principale dell’indagine.

Si occupava della cittadinanza italiana degli argentini

«In base a quanto ho potuto verificare accedendo agli atti giudiziari, gli accertamenti su di me erano scaturiti da una telefonata, intercettata dagli inquirenti, intercorsa prima del fatidico 26 settembre 2017 (data degli arresti) tra l’ex sindaco Mazza e l’allora assessore Gianfranco Ciafrone, nella quale venivano utilizzati termini molto offensivi nei miei confronti - spiega Radice, ripercorrendo le fasi iniziali dell’incubo - Sostanzialmente contestavano la modalità con cui stavo seguendo delle pratiche relative a oriundi italo-americani, ovvero discendenti da italiani che si erano trasferiti in Argentina anni addietro, che volevano recuperare la cittadinanza per trovare più facilmente lavoro in Italia. La maggior parte erano giovani neo-laureati in cerca di un’occupazione, accompagnati in ufficio da un argentino che faceva da interprete, dato che parlavano in modo stentato la nostra lingua».

Una questione che Radice conosceva molto bene, «dato che me ne stavo occupando da diversi anni. Ero molto abile e veloce nel gestire i procedimenti, ma non avevo mai ricevuto favori di alcun tipo, tanto meno soldi». A insinuare dubbi sulla sua onestà il fatto che in Comune si stava registrando un’impennata di richieste di cittadinanza da parte degli argentini, come se in qualche modo Radice avesse voluto aiutarli in cambio di favori illeciti. «Siccome stavo seguendo parecchi casi, all’interno dell’ufficio iniziavano a circolare “voci di corridoio”, espressione utilizzata negli atti della Procura - prosegue il lentatese - Poi c’era stata la chiamata tra Mazza e Ciafrone e così gli inquirenti avevano disposto il sequestro della documentazione relativa ai procedimenti di cui mi stavo occupando».

L’avviso di garanzia e l’interrogatorio  in periodo Covid

Nel gennaio 2018 l’arrivo dell’avviso di garanzia in cui Radice veniva informato di essere indagato per corruzione, «ma non c’era alcun riferimento ai fatti che mi venivano contestati, non sapevo per quali vicende venissi incolpato», precisa il 60enne, che si è subito rivolto a un legale, l’avvocato Domenico Versace. Poi, per quasi tre anni, «un silenzio tombale. Mi aspettavo di essere interrogato, invece sono rimasto come in un limbo, sospeso. Questa situazione non ha fatto che aggravare la depressione di cui già soffrivo. E’ stata veramente dura». Alla fine del 2020, in pieno periodo Covid, «ho ricevuto l’invito a presentarmi alla caserma dei Carabinieri di Desio per un collegamento da remoto con il giudice per le indagini preliminari Pierangela Renda, che mi ha interrogato sulle pratiche relative agli argentini, chiedendomi perché avessi fatto delle scelte piuttosto che altre. In particolare ho spiegato perché non avevo rispettato una circolare del Ministero dell’Interno sul procedimento da seguire per riconoscere la cittadinanza, una disposizione a mio avviso superata da regolamenti e norme successive».

Sta di fatto che a seguito dell’interrogatorio il gip aveva respinto la richiesta di sospensione dall’attività lavorativa avanzata dal pm, «per carenza di gravità indiziaria», come è riportato nel provvedimento di rigetto. Nonostante ciò, «di fatto, senza che ancora il Tribunale si fosse espresso nei miei confronti, avevo già subito un demansionamento, dato che nel novembre 2017 dallo Stato civile ero stato trasferito all’Ufficio Polizia Locale per svolgere un’attività decisamente meno qualificante», sottolinea Radice manifestando la sua delusione.

La richiesta di rinvio a giudizio e la sentenza di non luogo a procedere

E malgrado il clima ostile che respirava sul luogo di lavoro, «dove molti colleghi mi guardavano come se mi fossi macchiato di chissà quale delitto», il lentatese, dopo il provvedimento a suo favore del gip, pensava di essere vicino all’uscita del tunnel. Ma «nel 2021, a conclusione delle indagini preliminari, invece dell’archiviazione la Procura ha richiesto il mio rinvio a giudizio per abuso d’ufficio, non più per corruzione». Il tutto era passato quindi al giudice dell’udienza preliminare, Silvia Pansini.
«Si è aperto un altro capitolo lunghissimo, non sono mai stato interrogato, ma ho seguito con attenzione tutte le udienze, ben quattro - continua - E finalmente, il 14 febbraio di quest’anno, il giudice ha emesso la sentenza di non luogo a procedere nei miei confronti “perché il fatto non costituisce reato”. In quel momento è come se mi fossi tolto un macigno dal petto».

«La fine di un calvario, ma chi mi ripaga per tutta la sofferenza?»

La fine di un calvario per il professionista lentatese, che però sottolinea: «Cinque anni e mezzo sono troppi per giudicare una persona, tra l’altro sulla base di “voci di corridoio” - si sfoga - Chi mi ripaga per i problemi di salute, per l’emarginazione che ho subito e tuttora sto subendo sul posto di lavoro? Ancora adesso il clima che respiro è pesante, credo proprio che cercherò un’altra occupazione. Nella sfortuna, meno male che abito in un Comune diverso da quello dello scandalo, a Lentate non ho avuto alcun problema coi miei concittadini».

La vicinanza e il supporto della famiglia

A stargli accanto in questo periodo di esasperazione, delusione e sconforto, ci sono stati la sorella Erica e il papà Umberto Radice, noto teologo lentatese, «che hanno sempre creduto in me. Mio padre mi diceva di non perdere la speranza, di avere fede in Dio, che prima o poi sarebbe arrivato il lieto fine a questa assurda vicenda. E così è stato. Ma è giusto che io abbia dovuto passare le pene dell’inferno senza avere nessuna colpa?».

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