La storia

La mamma che lotta per i diritti di sua figlia

La monzese è stata a Roma per manifestare per la sua Zoe, una ragazzina trans

La mamma che lotta per i diritti di sua figlia
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Oggi si chiama Zoe, un nome che la rappresenta davvero per quello che è e ha la fortuna di avere al suo fianco una mamma coraggiosa, che non ha esitato ad andare a Roma a manifestare per i diritti di sua figlia e di tutti gli altri bambini e adolescenti «T» che non hanno la stessa fortuna di essere compresi e accettati (e che al coming out a volte vengono letteralmente buttati fuori di casa).

La storia di Zoe e della sua mamma

Perché la società italiana purtroppo - non ne fa mistero la monzese Silvia, 46 anni, la mamma di Zoe - è ancora molto indietro nel riconoscere i diritti delle persone transgender, ossia di coloro che hanno una disforia di genere perché si sentono uomini pur essendo nati in corpi femminili o viceversa.
Zoe non si è sempre chiamata Zoe, anche se probabilmente lo è sempre stata, anzi il suo nome lo ha scelto da sé qualche settimana dopo aver fatto coming out a 12 anni, dicendo alla mamma «Io sono una donna» e trovando la sua famiglia pronta a sostenerla in un percorso a tratti difficile e doloroso.
E la strada, nelle ultime settimane, è andata anche in salita. Lo racconta mamma Silvia di ritorno dal presidio che il 23 maggio ha visto manifestare a Roma i genitori di altri adolescenti trans provenienti da tutta Italia che volevano solo essere ascoltati. «Nessuno è venuto a parlarci, ma noi la nostra voce l’abbiamo sollevata comunque», hanno rimarcato.

La battaglia per la triptorelina

La monzese fa parte di Brianza oltre l’arcobaleno, ma anche di Affetti oltre il genere aps, l’associazione fondata dai famigliari di bambini e adolescenti transgender.
«Il Governo sembra voler sospendere la triptorelina, un farmaco già presente nei piani terapeutici - spiega Pessina - A seguito di un’interrogazione parlamentare del senatore Gasparri è iniziata un’ispezione all’ospedale Careggi di Firenze per valutare i percorsi relativi al trattamento di persone in età evolutiva e all’uso della triptorelina, un farmaco che ha portato tanti benefici nella vita di molti adolescenti».
Come spiega Pessina, si tratta di un bloccante puberale che in Italia assumono circa 15mila adolescenti, tra cui 26 ragazzi a cui è stata riconosciuta una disforia di genere. Tra questi c’è Zoe.
«A maggio si è riunito il tavolo tecnico che dovrà decidere per la vita dei nostri figli senza aver ascoltato né noi né loro. Nulla per loro senza di loro è il nostro slogan - ha aggiunto la monzese - Parliamo di un farmaco che viene usato da più di 30 anni, ci vogliono dire che fa male ai nostri figli, ma la verità è che si tratta di una scelta politica e nemmeno hanno voluto sentire le nostre storie e le ragioni che ci muovono».
La triptorelina consente di bloccare lo sviluppo dei tratti sessuali e quindi principalmente della barba nei maschi e del seno delle femmine (ma ha anche altri benefici per i ragazzi trans).
«Se mia figlia non lo avesse assunto, mi chiedo se ci sarebbe arrivata ai 18 anni...», svela Pessina, senza nascondere quanto dolore e disagio vivono le persone transgender.

Dal coming out al nuovo nome

Oggi Zoe ha 15 anni, sono passati tre anni dal suo coming out e lei ed è tornata a sorridere, dopo che per anni si era chiusa in casa. È libera di vestirsi come le piace, ha trovato un coordinatore di classe molto attento all’inclusione, ha attivato la carriera alias a scuola, dove può farsi chiamare con il nome che ha scelto per sé.
Tutto questo sarebbe arrivato lo stesso senza l’assunzione di quel farmaco e ovviamente l’appoggio della sua famiglia? Probabilmente no.
Lo racconta anche mamma Silvia: «Io mi sono messa nei panni di mia figlia, ho capito la sua sofferenza e mi fa male vedere l’Italia andare indietro al posto di progredire, il rischio è che dovremo trasferirci all’estero, dove spiace dirlo ma sono avanti anni luce». Oggi invece Zoe sull’autobus deve mostrare un documento con un nome e una foto che non la rappresenta più e forse questo le ricorda di tutte le volte che da bambina era stata una conquista avere il Lego da femmina o interpretare la mamma nei giochi di ruolo con la sorella (tanto che quella gonna se la teneva anche quando il gioco era finito).

Tante ancora le difficoltà

«C’è anche chi si vede negata la carriera alias a scuola, perché é ancora discrezionale e non posso pensare a quanta sofferenza aggiunga». Di passi avanti ne sono stati fatti (dal 2018 la disforia di genere non è più considerata una malattia mentale), ma non basta.

«La società è ancora piena di stereotipi, sembra più facile oggi accettare la diversità, ma anche gli stessi adolescenti non hanno del tutto ancora la mente aperta, purtroppo viviamo in un paese dove è un giudice che deve decidere se una persona può cambiare il suo nome e l’anagrafica».
Non a caso Zoe all’inizio ha detto «Mi vergogno a farmi chiamare con un nome femminile» e quando è stata pronta, era la sua famiglia ogni tanto a sbagliare l’uso del pronome. «Ci ha iniziato a correggere, ma con il sorriso. Ha dovuto affrontare il giudizio degli altri fuori e ancora oggi è più serena dentro casa, per questo non voglio che viva in un Paese che non riesce a non essere ancora retrogrado», conclude mamma Silvia che per continuare a vedere Zoe sorridere sarebbe pronta a tutto, anche a lasciare l’Italia per la Spagna, dove c’è più civiltà e umanità.

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