Testimonianze

Medaglie d’onore agli internati nei lager: «Un orrore che non si può dimenticare»

Le toccanti testimonianze dei familiari degli insigniti della medaglia.

Medaglie d’onore agli internati nei lager: «Un orrore che non si può dimenticare»
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Nel corso della cerimonia in Prefettura a Monza in occasione della Festa della Repubblica, lo scorso 2 giugno, il Prefetto Patrizia Palmisani ha presieduto la consegna delle Onorificenze dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana e delle Medaglie d'onore a 21 cittadini residenti nella provincia.

Sono state 18 le Onorificenze alla memoria consegnate ai parenti di deportati internati nei lager nazisti tra 1943 e 1945. In particolare sono stati ricordati Edoardo Canzi, Luigi Colombo, Angelo Malacrida, Carlo Vittorio Sironi, Luigi Cattaneo, Leonardo Cazzaniga, Alessandro Rho, Enrico Viganò, Angelo Galli, Giovanni Giovagnini, Lugi Panzano, Ambrogio Perego, Flavio Sala, Rosa Beretta, Gerolamo Plati, Tonino Rossicone, Salvatore Savoldelli e Giuseppe Zulian.

Medaglie d’onore agli internati nei lager: «Un orrore che non si può dimenticare»

In occasione della cerimonia abbiamo intervistato alcuni dei parenti delle persone insignite della medaglie d'onore.

La storia di Angelo Malacrida

«La guerra è la cosa più atroce che ci sia». Lo diceva spesso Angelo Malacrida, tra gli insigniti delle medaglie d’onore a cittadini italiani deportati nei lager nazisti.
Nato a Sovico il 5 ottobre 1922 da Pietro e Rosa Angelica, la sua era una famiglia povera e numerosa di contadini. Dopo le scuole elementari, a 11 o 12 anni Angelo iniziò il percorso lavorativo come metalmeccanico in una ditta del paese.

«Con la chiamata alle armi per il servizio militare papà viene assegnato al battaglione di fanteria e con l’inizio della seconda guerra mondiale ha sperimentato sulla sua pelle l’orrore, la sofferenza e l’ingiustizia più crudele che non riuscirà a dimenticare mai per tutta la sua vita - racconta la figlia Luisella - Ha combattuto sul fronte greco come soldato semplice. Ad Atene è stato fatto prigioniero dai soldati tedeschi e deportato in Germania nel campo di concentramento di Norimberga dove ha lavorato per i tedeschi in miniera. Verso la fine della guerra, in un giorno benedetto, come lo chiamava papà, un soldato tedesco che vigilava sul campo di concentramento, lo ha aiutato a evadere insieme ad altri italiani. Papà è così riuscito a tornare a casa attraversando la foresta Nera a piedi e con mezzi di fortuna. Il ritorno in famiglia lo ha aiutato a guarire nel corpo e nell’anima: ci sono voluti molti mesi per ricominciare a mangiare e a guarire dalla malaria che aveva contratto in Grecia».
Ripreso il suo lavoro di metalmeccanico, Angelo incontra la moglie Vittorina Mariani: si sposano il 25 aprile del 1949 e dal matrimonio nascono i due figli Antonio e Maria Luisa (Luisella).
«La famiglia era tutto per lui - ricorda la figlia - Non parlava molto di quanto aveva vissuto ma se gli chiedevi dei tedeschi ti diceva che erano una razza cattiva, crudele. Sulla schiena portava i segni indelebili delle frustate. “Non so neanche come ho fatto a venire a casa” diceva. “Non sapevo se sarei arrivato a sera, sapevo che quando ti sparavano poi ti portavano a bruciare” ci raccontava. Un paio di mesi ancora e non sarebbe resistito».
«Sarebbe stato bello che avesse preso l’onorificenza ancora da vivo per le sofferenze che ha passato - spiega la figlia - E’ giusto che queste cose si sappiano, per mantenere viva la memoria storica affinché i giovani sappiamo cosa è accaduto. Riprendere la vita normale per papà non è stato affatto semplice: era guarito nel fisico ma dentro aveva ancora l’odio. Ricordo, pensando adesso al conflitto in Ucraina, che papà spesso diceva: “Dopo la guerra come si fa a tornare a vivere?”».

Per non dimenticare Salvatore Savoldelli

«Per non dimenticare...». Nel giorno delle celebrazioni della festa della Repubblica, il 2 giugno, è stata consegnata la medaglia d’onore alla memoria anche ai familiari di Salvatore Savoldelli, deportato e internato, prigioniero di guerra in Grecia.

Il macheriese, originario di Clusone, classe 1923, viene chiamato alle armi al compimento del 18esimo anno d’età. La figlia Franca racconta la figura di quel papà attraverso l’immagine di una fotografia che custodisce gelosamente, uno dei pochi ricordi di quell’uomo buono e sempre sorridente che amava la vita.

«Ho pochi ricordi di mio papà, l’ho conosciuto per poco tempo, purtroppo è morto giovane, all’età di 50 anni, dopo una lunga malattia. Mia mamma non mi raccontava mai del suo periodo al fronte, lontano da casa e io non ho mai chiesto nulla. Quando ero in collegio ricordo che, appena poteva, veniva a trovarmi» ha ripreso la figlia.
Savoldelli proviene da una famiglia numerosa, ben nove fratelli, alcuni sono emigrati in America.

La storia di Edoardo Canzi

«E’ stato un nonno molto vicino e presente». A raccontare la storia di Edoardo Canzi, insignito della medaglia d’onore, è la nipote Marisa.
Nato a Sovico il 4 novembre 1911, pochi giorni dopo il matrimonio con Rita Resnati, nel 1940, viene chiamato a far parte del 54esimo reggimento Fanteria della Divisione Sforzesca. Nel gennaio del 1941 viene inviato sul fronte albanese, a giugno del 1942 parte per la Russia. Sopravvissuto alla tragica ritirata, nel febbraio del 1943 viene trasferito al settimo reggimento Fanteria della Divisione Cuneo. Viene catturato dai soldati tedeschi ad Arma di Taggia l’11 settembre 1943, trasferito in Germania e internato in uno stalag nei pressi di Amburgo dove viene costretto a duri lavori forzati. «E’ sopravvissuto agli stenti cibandosi di bucce di patate - racconta la nipote - Il desiderio di vedere la sua bambina e la moglie gli ha dato la forza e il coraggio di superare quel tragico momento. Quando è ritornato a casa, il 5 agosto 1945, i parenti hanno fatto fatica a riconoscerlo a causa del suo fisico provato: pesava meno di 40 chili». Poco alla volta Canzi riprende in mano la sua vita. Socio attivo della locale associazione Combattenti e Reduci e gestore appassionato (fino alla pensione) del bar trattoria sede dell’associazione, luogo di cerimonie per il 4 Novembre e per tutte le principali feste civili. Era soprannominato il «Duarden dei Cumbatenti».
«Durante la prigionia ha lavorato anche nelle cucine e raccontava che passava gli avanzi ai prigionieri - dice la nipote - Ha mantenuto vivo il ricordo del passato e spesso in famiglia raccontava le esperienze vissute trasmettendo il proprio attaccamento ai valori della patria. Ricordava anche i giorni del referendum del 1946: il primo voto della moglie, a favore della Repubblica e una certa apprensione per l’esito non scontato. Si è spento il 26 ottobre 1983 dopo una lunga malattia».
«Ho riconosciuto mio nonno in una fotografia diffusa dal compianto presidente dei Combattenti e Reduci, Giuliano Terruzzi, che lanciava un appello per rintracciare i parenti dei sovicesi internati e potergli conferire la medaglia d’onore - ricorda infine la nipote - Mi sono messa in contatto con lui e insieme al professor Francesco Mandarano si sono attivati per le ricerche all’archivio militare».

E quella di Carlo Sironi

«Ho sempre sentito parlare dello zio come “soldato disperso in guerra”, nessuno ha mai avuto più sue notizie: grazie all’aiuto degli alpini abbiamo ritrovato le sue spoglie».
E’ particolare la storia di Carlo Sironi (nella foto), nato a Triuggio il 21 novembre 1921 e chiamato alle armi il 12 gennaio 1941. Soldato di leva e arruolato al 75esimo reggimento Fanteria, è passato poi in forza quale autiere al 12esimo Autocentro Ponte Ammiraglio di Palermo e qui aggregato alla compagnia automobilisti.
Catturato dai tedeschi l’8 settembre 1943, Sironi è stato internato nello Stammlager VI in Germania dove è morto il 2 maggio 1945 per tubercolosi. Ad Attendorn Katholischer friedhof è avvenuta la prima sepoltura. Le sue spoglie del soldato ora riposano presso il cimitero militare italiano d’onore di Francoforte sul Meno.
«Dopo 70 anni, nell’aprile dello scorso anno, si presenta a casa mia un alpino residente a Triuggio, che mi comunica il ritrovamento delle spoglie di mio zio - racconta la nipote Patrizia - Notizia che gli era stata data da un gruppo di alpini del Friuli. Potete immaginare la mia commozione, quasi non ci credevo. Mi sono successivamente rivolta all’alpino Mario Alberti di Veduggio, il quale ha dedicato molto del suo tempo a cercare tutti i documenti relativi allo zio e grazie a lui sono arrivata alla consegna della medaglia d’onore. Il mio grazie di cuore agli alpini».

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