Dopo Lissone (è stato il primo comune in Brianza) anche il Consiglio comunale di Concorezzo nei giorni scorsi, su input della Lega, ha dato il via libera al divieto di entrare negli edifici comunali (Municipio, biblioteca, scuole e palestre) con il volto coperto.
Stop al burqa negli edifici pubblici, ma l’accostamento con i femminicidi fa arrabbiare Pd e «Vivi»
L’esplicito riferimento ai femminicidi, però, voluto fortemente da Fratelli d’Italia, inserito nella mozione presentata dal centrodestra, ha scatenato le dure reazioni delle forze di opposizione.
Concorezzo, dicevamo, è ufficialmente diventato uno dei primi comuni italiani ad approvare una mozione che vieta l’accesso agli edifici comunali a chi si presenta a volto coperto, con riferimento anche al velo islamico integrale, seguendo la linea già tracciata nel 2015 da Regione Lombardia. La mozione sulla sicurezza (rispetto del divieto di copertura del volto nei luoghi pubblici) è stata presentata dal capogruppo della Lega Silvia Pilati e ha ottenuto i voti favorevoli dei consiglieri di maggioranza e l’astensione da parte di quelli dell’opposizione. Dunque, a stretto giro, arriveranno delibera di Giunta e cartelli di «stop» affissi all’ingresso degli immobili di proprietà comunale per mettere al bando, oltre a caschi e passamontagna, anche burqua e niquab, simili a quelli che già campeggiano dentro e fuori le strutture di Regione Lombardia per effetto della delibera della Giunta Maroni datata 2015. Si dovrà poi mettere mano al regolamento comunale di Polizia Urbana per dare i necessari strumenti agli agenti della Polizia locale in caso di violazioni del divieto.
Il consigliere comunale Pilati ne fa una questione strettamente di sicurezza: l’esigenza di identificare in modo certo una persona – che giocoforza viene meno con il volto coperto da un velo – quando varca la soglia di un edificio pubblico, sottolinea, prevale sul motivo religioso.
«Ritengo fondamentale chiarire fin dall’inizio il senso profondo di questo atto: non si tratta di giudicare una fede religiosa o di limitare la libertà personale di alcuno – ha sottolineato Pilati – Il nostro intento è semplice e comprensibile a tutti: garantire che negli spazi pubblici comunali sia possibile identificare con certezza le persone presenti, come previsto dalla normativa nazionale e regionale. La sicurezza è un diritto di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro provenienza, cultura o credo».
Il richiamo ai femminicidi
Ma a creare polemiche è stato un passaggio successivo della mozione che riguarda il richiamo alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne celebrata martedì scorso. «L’utilizzo del velo integrale, soprattutto quando diventa negazione delle libere scelte di una donna, si pone in antitesi con i principi cardine della Costituzione e della nostra cultura e con le regole di comunicazione e convivenza sociale, diventando uno strumento oppressivo e una grave violazione delle libertà fondamentali di una donna», ha continuato Pilati.
Un’uscita che ha provocato la risposta di Pietro Brambilla, consigliere del Pd. «Pur partendo da un tema serio riguardante la sicurezza sul posto di lavoro, il testo della mozione è fortemente parziale – ha sottolineato Brambilla – La mozione richiama temi legittimi sui quali non facciamo ostruzionismo e vorrei ricordare che è dal 2015 che esiste la delibera di Giunta Regionale. Ovviamente si parla di caschi e passamontagna ,ma il cuore della mozione è il velo integrale. Dal mio punto di vista non possiamo pretendere di riscrivere o giudicare una cultura con un atto amministrativo: sarebbe un errore perché noi occidentali spesso conosciamo poco di quelle culture. E poi l’accostamento con la Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne lo trovo forviante: cosa c’entra il tema del velo con la violenza sulle donne? Cosa c’entra accostare la sicurezza nei luoghi pubblici con i femminicidi? Una riduzione inaccettabile. I femminicidi sono una tragedia nazionale, anzi mondiale che riguardano tutte le culture e che avvengono a tutte le latitudini del nostro pianeta. E riguardano anche famiglie italiane e non. Stiamo parlando di un problema educativo».
Critiche alla mozione sono arrivate anche da Chiara Colombini, di Vivi Concorezzo, che ha puntato il dito sul fatto che nelle premesse della mozione manchi il riferimento all’articolo 5 della legge 152 che già proibisce «l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo».
«Era fondamentale inserire questo articolo; è una premessa sostanziale: la legge dice già cosa è vietato fare su questo tema – ha sottolineato Colombini – Dunque tutte le delibere regionali sono di rango inferiore rispetto alla legge nazionale», ha continuato Colombini.
La replica della maggiornanza
C’era quindi bisogno della mozione del Carroccio concorezzese? «L’ulteriore obiettivo contenuto nella nostra mozione è sollecitare al Governo una legge che vieti burqua e niquab sul territorio nazionale», hanno replicato i membri della maggioranza. Legge che è nell’aria: «il mese scorso è stata presentata alla Camera una proposta di legge di Fratelli d’Italia che prevede il divieto “di indumenti che coprano il volto delle persone, di maschere o di qualunque altro mezzo” che rendano “difficoltoso il riconoscimento della persona» con sanzioni da 300 a 3 mila euro. A gennaio scorso la Lega, a prima firma del capogruppo in commissione Affari Costituzionali alla Camera Igor Iezzi, aveva presentato una proposta di legge simile che mirava a vietare il velo e a introdurre un reato che punisse chi «costringeva le donna a indossare burqua o niquab» con multe da 10mila a 30mila euro.
Dai terribili anni di piombo ai divieti voluti dal Pirellone: ecco cosa dice la normativa
In Italia, ad oggi, non esiste una normativa che vieta precipuamente l’utilizzo di un velo che copre il volto, come il niqab, o il burqa.Ci sono due leggi che sanciscono un divieto più ampio di entrare in luoghi pubblici con il volto coperto. In particolare l’articolo 85 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza datato 1931 recita: “È vietato comparire mascherato in luogo pubblico”.Negli anni di piombo, quando il Paese dovette fronteggiare numerosi atti terroristici di matrice politica, venne emanato un secondo provvedimento dallo spirito analogo, con il chiaro intento di tutelare la sicurezza pubblica, la legge Reale del 1975 che proibisce “l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona (come potrebbe essere un velo islamico, ndr), in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. Quello religioso può essere considerato un giustificato motivo?
L’ultimo richiamo ha aperto però la via a diverse interpretazioni: quello religioso può essere considerato un giustificato motivo? Per la Giunta regionale lombarda no: nel dicembre del 2015, governatore Roberto Maroni, l’Esecutivo approvò all’unanimità una delibera che sostanzialmente esplicita il divieto di entrare nelle strutture pubbliche della Regione Lombardia, ospedali compresi, con “caschi protettivi o qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona”. Nelle premesse, si specifica che “le tradizioni o i costumi religiosi, non possono rappresentare giustificati motivi di eccezione rispetto alle esigenze di sicurezza all’interno delle strutture regionali”.
Un impianto ritenuto legittimo anche dal Tribunale a cui si erano rivolte diverse associazioni denunciando il carattere discriminatorio dell’atto regionale. Si era invece espresso in maniera opposta il Consiglio di Stato nel 2008: censurando l’ordinanza emessa dal sindaco di Azzano Decimo, in provincia di Pordenone, che includeva espressamente tra i «mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona» anche «il velo che copre il volto», i giudici amministrativi avevano stabilito che la religione e la cultura di appartenenza rappresentano un motivo giustificato per coprirsi il volto anche in pubblico.