Villasanta: tre pietre di "inciampo" per non dimenticare FOTO e VIDEO

Sono state posate in ricordo di Giuseppe Arrigoni, Gaetano Galimberti e Luigi Rossi

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Si è conclusa una manciata di minuti fa la cerimonia di posa di tre pietre di inciampo, a Villasanta, per non dimenticare le vittime della Shoah. Stamattina, sabato, l’Amministrazione comunale, in collaborazione con l'Anpi locale, ha posato tre pietre a chiusura delle celebrazioni del Giorno della Memoria.

Prima una sosta in chiesa

Prima della partenza del "pellegrinaggio della memoria" i presenti hanno potuto sostare nella chiesa di Sant'Anastasia per un breve momento di preghiera insieme al parroco don Alessandro Chiesa.

Successivamente i presenti, guidati dal sindaco Luca Ornago (accompagnato da tutta la sua Giunta, in particolare da Laura Varisco e Carlo Natalizi Baldi che hanno collaborato a stretto contatto con Anpi per l'organizzazione della commemorazione), dal presidente dell'Anpi di Villasanta Fulvio Franchini, del luogotenente dei carabinieri Luca Carboni e dal comandante della Polizia locale Maurizio Carpanelli si sono diretti verso piazza Oggioni, dove è stata posata la prima pietra in ricordo di Giuseppe Arrigoni per poi continuare  in via Confalonieri 79, dove è nato Gaetano Galimberti. Infine, in via Galileo Galilei, di fronte all’abitazione di Luigi Rossi.

Le foto della commemorazione

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Tre pietre per non dimenticare

Tre pietre per non dimenticare: l’anno prossimo diventeranno 4, con quella dedicata ad Alessandro Varisco. "La speranza che abbiamo nel cuore è che questo sia solo l’inizio di un percorso della memoria, anzi se qualcuno ha parenti o conosce storie analoghe ce lo segnali", ha sottolineato Fulvio Franchini.

Le tre pietre, in bronzo, sono dedicate a tre cittadini che, dopo l’8 settembre 1943, militari appena 18enni, scelsero di non aderire alla Rsi (Repubblica sociale italiana) di Mussolini e per questo furono deportati nei campi nazisti, diventando schiavi di Hitler piuttosto che complici della barbarie nazifascista. L’iniziativa chiude le celebrazioni del Giorno della Memoria, organizzate dall’Amministrazione con Anpi e scuole.

Cosa sono le pietre di inciampo?

In tedesco si chiamano Stolpersteine, in italiano sono conosciute come «Pietre d’inciampo». Mutuano il nome da un passo del Nuovo Testamento, la Lettera di san Paolo ai Romani (9, 32-33: E perché mai? Perché agiva non mediante la fede, ma mediante le opere. Hanno urtato contro la pietra d’inciampo, come sta scritto: Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e un sasso che fa cadere; ma chi crede in lui non sarà deluso) e si riferiscono ad un progetto ideato dall’artista tedesco Gunter Demnig a Colonia nel 1992 e ripreso da molte città. L’artista le ha pensate come strumento contro l’oblio, il negazionismo e il revisionismo storico, in memoria di cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. L’«inciampo» rappresenta in modo metaforico un invito alla riflessione. Hanno la forma di un sampietrino (il blocchetto utilizzato per la realizzazione del lastricato stradale di molte città. Della dimensione di 10 per 10 centimetri, sono cubi di cemento che recano sul lato superiore una targa in ottone con il nome e le date di nascita, di arresto, deportazione e morte delle vittime dello sterminio nazista o della persecuzione. Non solo ebrei, ma anche omosessuali, sinti, rom, testimoni di Geova, disabili fisici e mentali, oppositori del regime nazista e membri della Resistenza. Le Pietre vengono installate sulla pavimentazione, in prossimità dell’ultimo luogo di residenza o di lavoro scelto dalla singola persona che si intende commemorare, prima che questa perdesse la libertà. La richiesta di installare le Stolpersteine parte nella maggioranza dei casi dalle famiglie o dagli amici delle vittime, che forniscono anche i dati biografici essenziali (e poi deve essere approvata dalle singole amministrazioni cittadine). In Italia sono presenti in dodici regioni.
Noi le chiameremo Pietre della Memoria perché dedicate a coloro che sono sopravvissuti ai Campi di Concentramento e di Internamento.

Giuseppe Arrigoni

Giuseppe Arrigoni nacque a Barzanò (CO) il 21 novembre 1915 e si trasferì a Villasanta nel giugno del 1966 con tutta la famiglia per avvicinarsi al posto di lavoro a Milano. La famiglia era di origine operaia, suo padre era falegname, e subito dopo la scuola dell’obbligo, Giuseppe iniziò a lavorare.
Partì a militare di leva il 18-4-1936 e terminò il servizio il 4-4-1937.
Poco dopo fu richiamato alle armi per ben quattro volte: nel 1938, nel 1939 e dal 1940 al 1942, ultimo richiamo fu il 2 aprile 1943. Il I° fronte di guerra fu quello Albano-Greco-Jugoslavo: dal 10 novembre 1940 al 28 giugno 1941; partito da Brindisi sbarcò a Tirana, rientrò a Bari da Durazzo.
Il II° fronte Francese: dal 29 settembre 1941 al 14 luglio 1942, zona Bardonecchia. Il III° fronte Austriaco: dal 2 aprile 1943 a San Candido. Fu catturato in caserma il 9 settembre 1943, portato in Germania e rimpatriato il 15 giugno 1945. Il 9 settembre del 1943 fu fatto prigioniero in caserma a San Candido dalle truppe tedesche e da qui venne deportato. Arrivò in Germania 21 settembre ‘43 e fu internato a Muhlberg/Elbe Stalag IV B, mat.230099. Fu liberato e tornò in Italia il 15 giugno 1945. Negli anni successivi non parlò quasi mai della sua prigionia, quasi si vergognasse, forse, o anche, perché il rientro nel suo Paese, un po’ come è successo per quasi tutti i prigionieri militari, non fu considerato nel modo corretto. Nonostante tutto, non si lamentò MAI. Lo considerò sempre come un periodo della vita, quindi da accettare. Lavorò tutta la vita per la sua famiglia. Muore il 9 ottobre 1993

Luigi Rossi

Luigi nacque il 4 dicembre del 1925 in una famiglia numerosa: 6 figli maschi e 4 femmine. Il padre era titolare di un candeggio e Luigi frequentò le elementari in collegio e poi ragioneria a Monza. Come molti giovani in quegli anni, non ancora diciottenne, fu chiamato alle armi. Fece prima un periodo a Milano e poi fu trasferito a Cremona nel gruppo Genio/telefonia.

“Un giorno eravamo sull’Appennino per stendere dei fili elettrici, vicino ad Aulla (prov. di Massa Carrara ndr). Ci dissero che dovevamo andare in un teatro in paese e lì, quando si alzò il sipario, comparvero i tedeschi con le mitragliatrici puntate. La sera stessa partimmo per la Germania. Eravamo un sacco di gente e fummo stipati in 6 piccoli vagoni: può immaginare come si stava. Dopo una settimana, arrivammo a Kattowitz (in Polonia). Appena arrivati ci tolsero tutto, anche il nostro nome. Ad ognuno di noi fu assegnato un numero, anzi ognuno di noi diventò un numero. Il mio numero era 5205, bisognava ricordarselo: il nome non esisteva più. Poi mi mandarono quindi a lavorare in una miniera di lignite a Gadewitz (tra Lipsia e Dresda). Era una miniera a cielo aperto, enorme e profonda. C’erano solo uomini, nessuna donna. Io dovevo occuparmi della manutenzione insieme ad un gruppo di polacchi. Due di loro mi aiutarono molto. Bisognava essere precisi. La lignite serviva per la corrente. Si lavorava a turni, il primo era 6/18. Prima di andare a lavorare si passava dalla cucina a prendere un pasto, che ci doveva bastare per tutto il giorno. Si trattava di un mestolo di minestra e un pezzo di pane. Restai lí 4 mesi, poi mi mandarono a Duisburg e mi occupai di rimettere in sesto lo scalo merci. Dovevo tenere in ordine i binari, fondamentali per i trasporti. Eravamo sistemati in baracche fuori città, ciascuna di 9 metri per 6 e dentro eravamo 20 persone. Il cibo era sempre scarsissimo: un mestolo di brodo, tre fette di pane. A volte un po’ di melassa. Un giorno, ricordo bene, arrivò il capo del campo e disse di andare nel rifugio perché stavano per bombardare. Quando arrivammo dentro il rifugio, gli altri tedeschi ci guardarono male e noi decidemmo di uscire. Andammo via perché avevamo ancora la nostra dignità. Loro non conoscevano il significato della dignità, ma noi sì”.

Durante un trasferimento di fronte alla avanzata degli alleati, Luigi Rossi riuscì a fuggire e trovò rifugio presso dei contadini. La liberazione avvenne il 1° aprile del 45. Trascorse circa un mese prima in un ospedale militare americano e poi in un campo inglese. Poi il viaggio di ritorno verso casa, finalmente.

“Alla frontiera, prima di rientrare in Italia, ci spruzzarono il ddt per disinfettarci. Ricordo il profumo, il mese di agosto era il momento di maturazione della frutta. Era una sensazione bellissima. I camion si fermavano nelle città principali, il mio faceva tappa a Milano e da li ne presi un altro per Monza. L’ultimo tratto lo feci a piedi fino a Villasanta. Un signore in bici mi vide e mi riconobbe. Quindi tornò di corsa indietro e avvisò casa mia. La mia famiglia non aveva mie notizie dal giorno della cattura. Avevano chiesto anche in Vaticano, ma non avevano ricevuto alcuna risposta. Io non ero mai riuscito a contattare i miei familiari, perché mi avevano trasferito diverse volte. Quella mattina mi corse incontro tutta la “tribù”; mancava solo mio fratello Italo, perché era in ospedale a Varenna. Quindici giorni dopo il mio ritorno arrivò la lettera della Croce Rossa Italiana che annunciava alla mia famiglia la mia morte. Evidentemente era un errore.”

È così che il sig. Luigi Rossi ha ricordato la fine della prigionia e l’inizio di una nuova vita: in un’Italia libera, tutta da ricostruire. Negli anni 90, assieme ad altri IMI, costituì la sez. ANEI (Associazione Nazionale ex Internati) di Monza che fu attiva fino al 2010. Il sig. Rossi, per molti anni, ha condotto nelle scuole una importante e meritoria azione di informazione sulla realtà di quegli anni e sulla condizione degli Internati Militari Italiani. ed ha donato materiale storico La Biblioteca civica di Villasanta conserva gran parte del materiale storico che Luigi Rossi ha raccolto durante la sua esperienza.Muore il 26 settembre 2018

Gaetano Galimberti

Nacque a Villasanta il 25 maggio del 1920.

“Quando iniziò la guerra avevo vent’anni e quando fini 25. La mia famiglia era di umili origini, una madre casalinga e mio padre un buon fabbro. Dovetti lasciare il lavoro di idraulico per difendere la Patria, costretto a prendere parte ad una guerra che non condivideva perché non riusciva a comprenderne le motivazioni: era per me una guerra inutile".

Comincia, più o meno così, un dialogo tra nonno Gaetano e la nipotina curiosa che domandava.
Gaetano Galimberti ricorda quegli anni intensi e amari perché da semplice e tranquillo ragazzo che amava la famiglia e il lavoro, fu costretto a partire per il fronte per difendere ma anche per attaccare e per uccidere. Prima un breve periodo ad Imperia, per l’addestramento, poi i fronti di guerra: prima la Francia, poi l’Albania, poi la Grecai. E sempre paura, orrore, desolazione per la violenza della guerra, per i bombardamenti, per le troppe volte che vide, dopo un’azione di guerra, compagni a terra orribilmente mutilati o privi di vita. E poi la terribile esperienza della prigionia. Due internabili anni. Al momento dell’arresto Gaetano Galimberti si trovava in Grecia. Dopo l’8 settembre, il suo battaglione fu accerchiato da quelli che, dopo l’armistizio, diventarono “nemici”, l’esercito del Terzi Reich. Lo scontro fu violento ma la supremazia tedesca indiscutibile. Superstite, dopo una marcia di 600 km giunse a Salonicco dove fu spinto su un carro bestiame per essere deportato in Germania attraversando la Bulgaria, l’Ungheria, Belgrado, Lubiana, Vienna: 12 giorni di martirio ed è solo grazie ad una donna che di nascosto, durante una delle interminabili soste, riuscì a gettare attraverso le sbarre del treno parecchi pezzi di pane nero che suddiviso tra i compagni garantì la sopravvivenza. Poi l’arrivo a Berlino e internato a Buna Werke Skopau matricola 245266. Indescrivibile la vita all’interno del lager: le umiliazioni, e la crudeltà nazista, l’estenuante fatica del lavoro forzato, l’indigenza nella quale si viveva, il freddo, la fame, perché il cibo consisteva negli scarti alimentari o bucce di patate bollite. Due in un vero campo di sterminio: dove il prigioniero indebolito non potendo più produrre a sufficienza per l’economia del Terzo Reich, spariva e finiva nei forni crematori. Due interminabili anni di orrore, violenza e sofferenza inimmaginabili.
Finalmente la liberazione grazie agli americani l’8 maggio del 1945.
Tutte le speranze che aveva quasi abbandonato tornarono e con esse la certezza di poter tornare in Patria, in famiglia, tornare a vivere.

“La parola libertà riprese forma, suono, colore, e luce nella mia mente e nel mio corpo devastati.
Se grande è il culto degli italiani per i loro morti, in guerra più grande ancora lo deve essere per questi militari due volte noi dopo aver fatto morti dopo aver fatto il soldato, la guerra, la prigionia,
Noi reduci li ricordiamo e abbiamo scolpito un grande monumento nel nostro cuore a perenne ricordo di coloro che non torneranno”. C’è un grande monumento. Muore l’8 maggio 2008.

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