Infiltrato tra i narcos: "Ho aiutato il mio Paese, ma sono stato abbandonato"

Gianfranco Franciosi è stato ospite dei Rotaract Monza Nord Lissone

Infiltrato tra i narcos: "Ho aiutato il mio Paese, ma sono stato abbandonato"
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Infiltrato tra i narcos: "Ho aiutato il mio Paese, ma sono stato abbandonato"

La sua scorta non lo perde mai di vista. «Giannino non ti allontanare», gli sussurra l’agente incaricato di proteggerlo. «Il giubbotto antiproiettile ormai fa parte della mia vita», dice sorridendo, mentre stringe la mano a chi lo ha fortemente voluto portare in Brianza. Dietro quel sorriso, però, si nasconde la storia del primo - e per ora unico - infiltrato civile nei narcos.

Gianfranco Franciosi è stato ospite dei Rotaract Monza Nord Lissone (nella foto a sinistra), l’associazione giovanile del Rotary Club che si impegna nell’ambito del sociale e della beneficenza. Un incontro partecipatissimo, moderato da Vito Potenza - coordinatore provinciale dell’Associazione Nazionale Carabinieri - durante il quale Franciosi ha parlato dei suoi anni («nei quali non ho chiuso occhio, anche perché ho due figli») trascorsi a stretto contatto coi più grandi narcotrafficanti e coi loro «agganci» italiani, che altri non erano se non i clan affiliati alla Camorra.

Un impegno, il suo, che sarebbe stato poi «liquidato» dallo Stato con una stretta di mano e poco più. «Non è che io mi senta abbandonato, è che vorrei che lo Stato fosse più presente - ammette - Nessuno si è fatto sentire nemmeno quando, nel 2016, mi hanno fatto esplodere il cantiere. Ciò che mi fa andare avanti è l’affetto delle persone. Finché parlano di me, finché mi ricordano, io vivo».

Come tutto ebbe inizio

La vita di Franciosi inizia a Berna, in Svizzera, quarant’anni fa («Ho sangue spagnolo nelle vene - tiene a sottolineare - E’ per questo che i trafficanti sudamericani si sono fidati di me. Loro degli italiani non si fidano»). Ma è nella città di La Spezia, in Liguria, dove i genitori si erano trasferiti per aprire un ristorante, che scopre la sua strada. «Mio padre avrebbe voluto che diventassi ristoratore come lui. Ma io avevo altro in mente. Volevo costruire imbarcazioni e volevo farlo con le mie mani. All’epoca ancora non avrei mai potuto immaginare che sarebbe stato proprio il mio lavoro a mettermi sulla stessa strada dei narcotrafficanti».

L’«incontro» con la criminalità

Un incontro, quello con la criminalità, che ebbe un nome e un volto ben precisi. Anche se questo Franciosi lo avrebbe scoperto più tardi. «Erano gli inizi degli anni Duemila e, una mattina, si presentò nel mio cantiere un uomo che disse di avere un’attività di diving e che voleva che realizzassi per lui gommoni da 30/40 posti. Sono tantissimi, considerato che in media questo tipo di imbarcazioni trasporta 10 persone - racconta Franciosi - Mi pagò regolarmente, con tanto di bonifico e non ci pensai più».

Fino a quando tre mesi dopo non accese la televisione e non vide al telegiornale la faccia di quell’uomo. Si chiamava Giuseppe Valentini, detto Tortellino, e faceva parte della banda della Magliana. La notizia era che si trattava di un trafficante. E che era stato ammazzato a Roma.

«Mi sentii gelare il sangue. Non appena riacquistai un po’ di lucidità andai dritto alla Polizia. Non sapevo se, realizzando per loro dei gommoni, io avessi commesso un reato. Ma il pagamento era stato regolare. Quindi mi dissero che ero a posto. E che, anzi, avrei potuto aiutarli dicendo loro tutto quanto sapevo su Valentini».
Poi ci furono tre anni di silenzio. «Un giorno, arrivando in cantiere all’alba, trovai tre uomini che evidentemente conoscevano bene le mie abitudini. Mi dissero: “Ci manda Tortellino”. Sapevo che era morto e lo feci loro notare. Ma mi risposero a tono: “Appunto, ricordati che ci manda lui”. E allora capii di non avere scelta e che avrei dovuto ascoltarli». Volevano altri gommoni e Franciosi chiese 24 ore per decidere. «Temporeggiai apposta perché volevo andare ad avvisare la Polizia. Mi dissero di assecondarli e io realizzai un gommone da 300mila euro. Mi diedero un acconto da 50mila. Tutti in contanti. Peccato non fossi a conoscenza del fatto che le persone con le quali avevo a che fare fossero legate al clan dei Di Lauro. Non solo. C’era anche Elias Pineiro Fernandèz, boss del narcotraffico internazionale».

Pronta l’imbarcazione (con tanto di microspie e placche satellitari piazzate dalla Polizia), gliene chiesero una seconda. Ancora più capiente. «Non ce la facevo più - ammette ricordando quel periodo - Ero esasperato da quella situazione, anche perché ero sposato, avevo figli. Il giorno della consegna ricordo che c’era il mare agitato, pur di farli sparire dissi loro che il gommone poteva navigare. E glielo dimostrai prendendo il timone. Quella fu la mia rovina». Vedendo che Franciosi era un pilota abilissimo, lo «ingaggiarono». «D’accordo con la Polizia andai con loro verso la Spagna, ma ci furono problemi di comunicazione con la Gendarmeria. E io, dopo una serie di traversie come la perdita del Gps, mi ritrovai in carcere in Francia con l’accusa di concorso in traffico internazionale di droga dove trascorsi 7 mesi e 21 giorni».

Il maxi sequestro

Ma la vicenda non era destinata a chiudersi qui. Tornato in Italia, avrebbe preso parte a una delle operazioni contro il narcotraffico più grosse messe in piedi dalle Forze dell’ordine e che avrebbe portato al sequestro della «nave madre» degli spagnoli che trafficavano dal Venezuela. Grazie a Franciosi (che ormai godeva della piena fiducia del boss spagnolo), la Polizia riuscì infatti a sequestrare oltre 12 tonnellate di cocaina purissima per un valore di 270 milioni di euro. L’esito della vicenda arriverà però solo 4 mesi dopo, quanto, con una telefonata, lo stesso Franciosi riuscirà a incastrare definitivamente il boss. «Avevamo sì la nave madre e la droga, ma mancava la confessione del boss, cosa che, tramite una telefonata, riuscii a ottenere».

La parola fine, tuttavia, non arrivò nemmeno in questo caso. Su di lui pendeva una taglia messa dai trafficanti. E per questo fu inserito nel programma di protezione testimoni di giustizia. «Ma me ne tirai fuori. Secondo me non funzionava. Non capivano quanto la mia famiglia ed io fossimo davvero in pericolo. Quando tornai alla vita cosiddetta normale, non trovai più né la mia casa, né il mio cantiere che era stato distrutto dall’inondazione del fiume Magra. E lo Stato mi liquidò con 73mila euro. Una cifra che non mi permetteva neanche lontanamente di ripartire».

Abbandonato dallo Stato

Franciosi fu il primo a fare causa al Ministero degli Interni. «Mi fecero una proposta transattiva per non mostrare più la mia faccia in tv. Così riuscii a rimettere in piedi la mia attività. Ora sono il primo costruttore di imbarcazioni elettriche in Italia. Sono tornato alla mia grande passione. Ma la malavita non si è dimenticata di me. Nel 2016 mi hanno fatto esplodere il cantiere in Liguria e sono stato più volte oggetto di atti intimidatori». Oggi Gianfranco Franciosi conduce una vita da sorvegliato. Di lui si occupano sia le Forze dell’ordine che dei civili che lo accompagnano in occasione dei suoi incontri con la cittadinanza. «Lei mi chiede se indosso il giubbotto antiproiettile. Io le rispondo che ci vivo».

Un’esperienza da infiltrato che, inevitabilmente, lo ha segnato e che gli ha tolto tanto. Troppo. «Vado avanti grazie all’affetto delle persone. Non voglio che si dimentichino. Ho scritto un libro e presto partiranno le riprese di una fiction con Beppe Fiorello ispirata alla mia vicenda e che andrà in onda a febbraio». Ma Franciosi non si tira indietro nemmeno (e forse soprattutto) quando si tratta di aiutare gli altri. «Sto raccogliendo fondi per donare un’ambulanza pediatrica e un’incubatrice. La vita mi ha tolto tanto, ma quello che non riusciranno mai a portarmi via è il coraggio di fare la cosa giusta. Sempre e a ogni costo».

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