Monza

La battaglia di una mamma cui hanno tolto la figlia

L’avvocato Katia Carosi, che rappresenta i genitori naturali della piccola, ricostruisce la vicenda

La battaglia di una mamma cui hanno tolto la figlia
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Da un lato ci sono loro, i genitori  - entrambi di Monza - che fin da subito hanno cercato di fare del loro meglio per non perdere la figlia. Dall’altro, i Servizi sociali che invece hanno ravvisato nella loro condizione di fragilità un presupposto sostanziale per procedere con l’affidamento. Al centro una bimba di appena tre anni il cui futuro, così come è stato stabilito dai giudici, è lontano dalla donna che l’ha data alla luce. Una bambina che, spiega l’avvocato Katia Carosi che rappresenta i genitori naturali, «è stata sottratta troppo in fretta, senza che sia stata concessa loro la possibilità di dimostrare le proprie attitudini genitoriali».

Una vicenda difficile

Una vicenda delicata cominciata ben prima che la piccola nascesse (con le visite dei servizi sociali nell’abitazione di lui, che risiede in zona Regina Pacis) e che ha visto i giudici della Corte d’Appello di Milano, dare ragione ai servizi sociali del Comune di Monza, ribadendo contestualmente lo stato di adottabilità della bambina già stabilito dal Tribunale dei Minori che aveva ritenuto i genitori «inidonei, evidenziando in loro un quadro di povertà socioculturale e una incapacità critica».
Una sentenza - quella del Tribunale dei Minori - che era dunque stata impugnata dai genitori che si erano affidati all’avvocato Carosi poco tempo dopo la nascita della bambina.

L'allontanamento

La piccola era stata allontanata dalla mamma e dal papà poco dopo il parto in quanto i professionisti che avevano il compito di monitorare la situazione (e che erano stati attivati già qualche mese prima del termine della gravidanza) avevano considerato la coppia «inadeguata».
In particolare avevano rilevato sin da subito dopo il parto, un’«incapacità della signora alla gestione dei bisogni primari della minore». Assunto al quale la legale si è opposta, sottolineando come «non sia stato considerato il normale periodo di assestamento del corpo e della mente di circa 40 giorni», come ha spiegato l’avvocato Carosi che ha anche messo in luce come la donna abbia un diploma di assistente all’infanzia e come in passato avesse lavorato coi bambini.

La posizione dei Servizi sociali

Nei giorni successivi alla nascita della figlia «le carenze mostrate dalla mamma apparivano, sia pur gradualmente, progressivamente rientrare e questo lo si può evincere anche dalla documentazione medica richiesta al San Gerardo», aggiunge il legale. Oltre a ciò, spiega ancora l’avvocato, «la mia assistita era stata sottoposta a una valutazione inerente le condizioni intellettive e cognitive. Ebbene, la dottoressa del Cps di Monza che l’ha valutata ha confermato anche davanti al giudice che, a parte una povertà culturale, si sarebbe potuta tranquillamente prendere cura della figlia». La donna era stata anche sottoposta a un accertamento per quanto concerne la difficoltà nel linguaggio di cui soffre, al termine del quale la fisiatra «non aveva rilevato alcun grave impedimento nel linguaggio, né alcuna grave disabilità che potesse andare a inficiare il rapporto con la figlia».

Aggiunge l’avvocato della famiglia:

«La coppia si era impegnata a mettere in pratica quanto richiesto dai servizi sociali. Ad andare a inficiare il percorso è stato il diniego della mia assistita a trasferirsi presso la comunità Jobel per donne maltrattate. Un rifiuto dettato dal fatto che la mia cliente, non avendo mai subito alcun tipo di violenza da parte del compagno, non aveva capito il motivo per cui le avessero proposto tale soluzione. Una soluzione che, a mio avviso, non solo le era stata proposta subito dopo le dimissioni dall’ospedale, ma che non era stata adeguatamente spiegata, né altrettanto correttamente percepita dalla coppia. Ma ha comunque determinato l’allontanamento della bambina».

Gli incontri

Per i primi due anni mamma e papà hanno potuto vedere la figlia «solo in incontri protetti e per pochissime ore, meno di una volta a settimana. In alcuni casi non era stato proprio possibile per la coppia incontrarla. E’ capitato anche che siano stati rimproverati perché le portavano giochi “non concordati”, o nelle modalità con le quali si rapportavano alla figlia».

Una serie di motivazioni che hanno portato l’avvocato a impugnare la sentenza emessa dal Tribunale dei Minori di Milano con la quale i giudici avevano dichiarato lo stato di adottabilità della bambina. Impugnazione con la quale il legale ha chiesto, oltre alla totale riforma della sentenza, la dichiarazione di idoneità a mantenere la responsabilità genitoriale. O, «se proprio si dovessero confermare i precetti della sentenza del Tribunale dei Minori, che si disponga piuttosto l’adozione mite che consente di conservare i rapporti con la famiglia di origine, per evitare di recidere definitivamente il legame col proprio passato».

Richieste respinte dai giudici

Un ricorso che è però stato respinto dalla Corte d’Appello che, basandosi anche sulle relazioni dei Servizi sociali, ha posto l’accento, come si legge nella sentenza, «sull’andamento degli incontri che evidenziava le numerose difficoltà di entrambi i genitori nel sintonizzarsi coi bisogni della bambina». Mentre, d’altro canto, «la bimba ha proseguito il suo progetto di affido familiare in modo sereno e positivo, mostrando buone capacità di attaccamento e di relazione anche con gli altri membri della famiglia».

Una decisione che ha messo fine a ogni tipo di incontro. «Non sappiamo più niente della bambina - ha concluso l’avvocato - I miei assistiti non hanno più avuto la possibilità di vederla. Meritavano un’attenzione diversa. E’ vero che hanno delle fragilità, ma così come aveva sostenuto anche la professionista del Cps, con un sostegno in più avrebbero potuto farcela».

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