La sentenza

Saluto romano, seregnese condannato

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del 77enne e di altri imputati contro la sentenza della Corte d’appello.

Saluto romano, seregnese condannato
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Il saluto romano «favorisce la diffusione dell’ideologia fascista e nazista o comunque fondata sulla superiorità o l’odio razziale o etnico». Con questa motivazione la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato dal seregnese Norberto Bergna e altri sei imputati contro la sentenza di condanna emessa il 13 febbraio del 2020 dalla Corte d’appello di Milano.

Saluto romano, seregnese condannato

Oggetto della contestazione la commemorazione dei caduti della «rivoluzione fascista» al cimitero monumentale di Milano, il 25 marzo del 2017 in occasione dell’anniversario della fondazione dei fasci di combattimento, promossa dall’associazione d’arma Unione nazionale combattenti della Repubblica sociale e dall’associazione nazionale Arditi d’Italia.
Alla cerimonia presso il sacrario dei martiri fascisti, autorizzata dal Questore, erano presenti circa cinquanta persone, ma senza simboli fascisti e nessun discorso a sfondo razzista: Bergna, in qualità di organizzatore, aveva letto i nomi dei caduti e i manifestanti avevano risposto con il «presente» e il saluto romano (il seregnese invece non lo aveva fatto).

Il Tribunale di Milano, nella sentenza di primo grado del 13 giugno 2019, aveva escluso il pericolo concreto che la cerimonia in cimitero avesse avuto «la capacità di diffondere idee fasciste o discriminatorie», peraltro promossa da associazioni «che non risultano illegali o illecite». Viceversa la Corte d’appello aveva riconosciuto ai partecipanti «il concorso nel delitto aggravato di compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista», con una condanna a un mese e dieci giorni di reclusione, oltre a 220 euro di multa.

Nei giorni scorsi la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso degli imputati, secondo i quali nel raduno in cimitero non c’era alcuna finalità di «incitamento ed esaltazione del vecchio regime», bensì un omaggio ai defunti «senza alcuna finalità di restaurazione fascista» e nell’ambito di una libertà d’espressione rafforzata dalla giurisprudenza europea.

La Suprema Corte, nella sentenza di 29 pagine pubblicata nei giorni scorsi, ripercorre le leggi sul divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista e dell’apologia di fascismo, nonché sulla condanna della discriminazione e della violenza per motivi razziali, etnici o religiosi, anche attraverso l’uso di emblemi o simboli.

I giudici spiegano che non è incriminata la manifestazione in sé come omaggio e umana pietà ai defunti, bensì «la pubblicità» tale da «rappresentare un concreto tentativo di raccogliere adesioni a un progetto di ricostituzione del partito fascista», con una «idoneità lesiva per l’ordinamento democratico» attraverso la pubblica diffusione delle sue idee e dei simboli.
Nell’omaggio in cimitero si evidenzia l’adesione dei manifestanti all’ideologia fascista e nazista, inoltre gli stendardi delle associazioni organizzatrici che richiamano la Repubblica sociale, «epigone del regime fascista», sono «elementi non solo identitari di un gruppo di nostalgici, ma piuttosto l’espressione ostentata di ideologie vietate che sono intenzionalmente sbandierate allo scopo di diffonderle tra il pubblico».

Infine il collegio romano respinge la tesi difensiva secondo cui i gesti della cerimonia rientrino nella libertà d’espressione, che cessa quando «per le modalità e i contenuti espressi» risulta «in insanabile contrasto con i valori della convivenza democratica costituzionalmente tutelati in via primaria».

(foto archivio)

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