Torta paesana, da quando è un dolce brianzolo?
L'accurata ricerca svolta dallo storico triuggese Angelo Cecchetti.
"Il tutto è cominciato poco tempo fa mentre, tra amici, in tono allegro, spensierato e rilassato si parlava se la torta paesana rappresentasse il dolce della tradizione brianzola".
Torta paesana
La ricerca che qui vi riportiamo è stata condotta dallo storico di Triuggio, Angelo Cecchetti. "Mi pare cosa buona e giusta riportare al corretto posto d’onore alla turta de làcc (torta di latte) quale ava, o più precisamente in forma atavica, della più nota torta paesana che veniva preparata e sfornata solo per il giorno della festa del patrono/festa del paese, forse da qui il termine paesana. Perché mi permetto ricondurre questo dolce nella sua forma ancestrale è presto detto. Allo scopo occorre introdurre una piccola premessa. Quando usiamo il termine «brianzolo/a» a chi ci relazioniamo, a persone nate in una determinata area geografia o al loro «stile di vita» in un certo periodo? Propendo per la seconda ipotesi, e mi aiuta a far emergere il dubbio, è una mia riflessione, che si abbia perso un po’ il senso, o la memoria, di come si vivesse 100 anni fa, dove la stragrande maggioranza della popolazione era povera se non molto povera «pòr crist insuma».
Gli ingredienti
Il tutto può essere verificato tramite gli attuali ingredienti, rispetto al passato, della torta paesana: pan poss (pane raffermo) meglio ancora pan secc (secco/duro), làcc (latte), zùcher (zucchero) cacao, cioccolato amaro, amaretti, pan d’anice, biscotti secchi, òff (uova), l’ugheta pàsa (uvetta sultanina), cedro candito e in aggiunta con varianti pan d’anice, pinoli e ul mustacien (biscotto molto duro speziato che si deve grattugiare), ecc. ecc. Ora sulla tremenda ed eccezionale bontà, cibo rubato agli dei dell’Olimpo, della torta paesana nessuno può obiettare nulla…. Dobbiamo però riprenderci il giusto senso della parola «tradizione» che per semplicità possiamo tentare di definire come un «tramandare» qualcosa che passa, nel corso del tempo, e nel passaggio mantiene per la maggioranza dell’azione un certo grado di immutabilità. Ora senza scomodare nessun chef pentastellato sulla «mutabilità» della torta di latte, diviene fondamentale però far rinvenire nella nostra memoria, che nel tempo passato, e qui è di fondamentale aiuto mia mamma, Alberta Brambilla, classe 1928, dove mi conferma che i pòr crist, de danè ghe n’aveven minga, di soldi non ne avevano. Le uniche «risorse», intese come ingredienti, erano il latte e il pane e in ultimo lo zucchero, considerato un bene di lusso da centellinare (misurà), e allo scopo, quasi solitamente, veniva chiuso sotto chiave in qualche cardenzèn (armadio/credenza).
La cottura
Passiamo ora alla cottura, in alcuni casi rari, si cuoceva tra i mattoni messi nel camèn (camino), in questo caso alcuni personaggi mi informano che con questo tipo di cottura «la diventava scùra per la carisna» (diventava nera per la fuliggine), ma come ho scritto si tratta di personaggi… mentre la maggior parte delle volte si preferiva portare le torte dai fornai di paese, in quanto la machina da fà da mangià (cucina a gas) non era ritenuta all’altezza. Mi ricordo una specie di processione con le varie teglie tenute nel mantèn (strofinaccio) e ogni famiglia marcava le proprie con personali segni di riconoscimento e ogni massaia aveva la sua ricetta. A cottura avvenuta per tutto il paese aleggiava un soave profumo di torta. Ormai profumo irritrovabile, ahimè... Ora ritorniamo ai ropp de mett dènt per fà la turta, gli ingredienti reperibili nel periodo antecedente la seconda guerra mondiale, ciò che nei cortili dei brianzoli di sarebbe potuto mèett insema trovare, oltre a: latte, pane, zucchero, uova, un po’ di frutta (quella che era a disposizione come mele e pere) e poi per renderla scura si aggiungeva il caffè, però un po’ pian e un po’ adasi, non il vero caffè, bensì un surrogato «L’Olandese» marca Elefante a base di cicoria/orzo. Mentre a Cassago Brianza oltre all’Olandese, si aggiungeva la miscela Leone a base di bietole, cicoria, orzo, segale, ceci, melassa …. e anche a Cassago, mi si racconta, che la torta paesana «marrone» si è vista dopo il 1950/1955.
Gli amaretti di Saronno
Ecco la turta de lacc primigenia lè bèla che prunta. Occorre anche ricordare che allora, molti ingredienti non si conoscevano o non si potevano acquistare (per i poc danè). Prendiamo ad esempio, estraggo da Wikipedia, gli amaretti di Saronno risalgono al 1718, circa 300 anni fa, ma con un margine di errore minimo, presumo che i brianzoli puarètt, avendo a disposizione un quai ghel in pô (qualche soldo in più) avessero iniziato a consumarli sulla fine degli anni 50 del secolo scorso avendo così potuto «arricchire» la torta portandola a come la conosciamo oggi. Col passare degli anni, alcune persone diversamente giovani continuano a chiamar la torta paesana turta de lacc, o anche mica e lacc, un po’; per abitudine o per ricordare la gioventù. Mi hanno riferito che in un paese non distante da noi la sacra leccornia viene chiamata con un nome che non le rende merito, anzi la sminuisce e per tal motivo non cito né il paese né il nome datole.
La testimonianza di Pietro
Aggiungo, il pensiero di mio cugino Pietro di Lissone: «Angelo, ricordi di torte o dolci in genere negli anni 40 non ce ne sono, non c’era neanche il necessario e, per esempio, il pan poss, non ce n’era perché il poco pane presente in casa non arrivava a diventare secco… inoltre a mia memoria le prime torte le ho viste, solo viste, a metà degli anni 50». A corroborare quanto sopra ho chiesto alla Rosetta di Macherio, grande mamma, che anche lei ricorda nello stesso periodo simili usi sia nella preparazione sia nel portarla dal fornaio a cuocere. Mi ha fornito anche informazione sulla reperibilità degli ingredienti a Macherio: «La settimana prima di San Cassiano, nel cortile, arrivava un signore con un camioncino che portava tutti gli ingredienti necessari per la torta, mentre il latte lo portava il lattaio De Zordo che dal carrettino con il (cazù) mestolo ne vendeva quanto necessario e per ultimo si andava nel negozio del Caremi a prendere il cedro a pezzi grossi che successivamente si tagliuzzava».
Il Corriere della Domenica
L’ultima testimonianza, la più antica citazione fino ad ora nota, la ricavo dalla rivista Corriere della Domenica del 1892. «…Ogni famiglia prepara in questo giorno la torta tradizionale, una torta che dovrei aver assaggiata per poter dire com’è fatta: basta sapere che le massaie la cucinano in grandi casseruole o padelle, che poi portano al forno del paese, e che ha l’aspetto di una zuppa sparsa abbondantemente di cacio; badate però che la gastronomia non è il mio forte ed è facilissimo ch’io abbia veduto lucciole per lanterne». Appare anche chiaro che l’autrice, Olga Miracov, probabilmente, non era brianzola e quindi poco avvezza negli usi e costumi della Brianza ed è appunto lei stessa, per esempio, che fa notare di non essere esperta in gastronomia e quando descrive la torta «…sparsa abbondantemente di … cacio…», probabilmente ha scambiato il latte della «turta de lacc» per cacio…». Comunque sia, questo elisir celestiale, nutrimento da medaglia d’oro olimpica viene dai i sommi vati, equiparata al profumo della libertà culinaria... e quindi chi torta paesana non prova libertà non apprezza… chi non vive il piacere e la libertà di una torta «raffinata», non apprezza la semplicità della bellezza e del valore della cucina popolare.
Un simbolo culinario
Penso che sia importante valorizzare la storia e la cultura del territorio attraverso anche la gastronomia, e la torta paesana rappresenta certamente un simbolo culinario della nostra storia locale e contribuisce a preservare la memoria delle radici culturali di un luogo. Tuttavia, è giusto anche sottolineare l’evoluzione e la variazione di questo dolce nel tempo. Un alto piccolo quesito mi porta a pensare che sarebbe interessante sapere chi sia stato il primo a indorare, o meglio ad incioccolatare, e arricchire di prelibatezze il dolce; e come abbia fatto a prendere piede questa «nuova» ricetta che poi, non si sa come, sarebbe divenuta patrimonio dei brianzoli. Fino ad ora ho usato, a insaputa della torta stessa, le sue preparazioni per cercare di poter evidenziare alcuni aspetti dell’identità del brianzolo. La conoscenza e la preservazione della propria storia e della propria cultura sono importanti per mantenere viva l’identità di un territorio e della sua gente. Cerco di esprimere un parere, ed è solo un mio punto di vista sia ben chiaro, ci siamo dimenticati o ci stiamo dimenticando da dove arriviamo? Non è che sto promuovendo l’idea di ritornare nella «povertà» di un tempo per recuperare il ruolo dovuto, ma mi piacerebbe che ogni tanto si rammentasse che fino a 60 anni fa era molto molto dura. Ora rimanere ancorati a un’epoca che può essere solo romanticizzata, ma che in realtà era difficile, e spesso priva di confort e opportunità, deve servire solo come fonte di ispirazione e di riflessione.
Tuttavia, è importante ricordare e apprezzare il lavoro e il sacrificio di coloro che hanno contribuito a costruire il mondo in cui viviamo oggi e cercare di preservare il loro patrimonio culturale e storico cercando di trovare un certo equilibrio tra il ricordo e la valorizzazione del passato per preservare la storia e l’identità culturale della Brianza. Oggi diamo tutto per scontato come ad esempio il semplice gesto nell’accendere la luce, nessuno più si ricorda dei lumi a petrolio e ai zufranei (fiammiferi)… Chiedo scusa alla torta se l’ho coinvolta in questo mio pensiero e ora ritorno sul percorso culinario con il seguente quesito: La torta paesana, con le diverse varianti, è il dolce della tradizione brianzola? E da quando? Io non mi esprimo… ma sô che lè propi buna da matt.... P.s. La rusumada dove la collochiamo…?