"Scelsi la lotta armata, oggi mi batto per la Giustizia Riparativa per le vittime"
La storia di Ernesto Balducchi, monzese, classe 1953 che nel 1984 dal carcere fece consegnare tre borse di armi al cardinale Martini da parte dei brigatisti liberi come gesto di resa

«Era un’altra Italia e tutto un altro scenario. Pensavamo che la lotta armata fosse l’unica scelta, ma ci sbagliavamo».
Così Ernesto Balducchi, di Monza oggi ritorna con la mente agli anni di Piombo, quando fu uno dei leader della lotta armata vicino a Prima Linea. Poi ci fu l’arresto, il carcere, fino all’episodio che passò alla storia: la riconsegna della armi al cardinale Martini, di cui fu uno degli artefici.
Dalla lotta armata alla Giustizia riparativa
Oggi il monzese ha 71 anni e si batte per la Giustizia Riparativa, non facendo mancare appena può la sua presenza negli eventi organizzati in scuole e università per affrontare questo tema che gli sta a cuore.
Balducchi, che è stato operaio alla Breda dal 1975 al 1977 proprio lì si avvicina alla lotta armata. Arrestato alla fine del 1980, esce per decorrenza dei termini massimi di carcerazione preventiva alla fine del 1985. Condannato in via definitiva a 10 anni, ha scontato la rimanenza in forme alternative della carcerazione. Ha avviato una sua attività lavorativa dal 1986 nel campo dei trasporti, che ora ha affidato al figlio. Negli anni è stato protagonista anche di incontri per nulla scontati con le vittime di quegli anni di terrorismo, ma non era mai tornato a parlarne nella sua città.
Lo farà per la prima volta mercoledì 14 maggio, invitato da Fabrizio Annaro, in occasione della lettura scenica ideata per la giornata delle vittime del terrorismo Promette di essere un momento davvero intenso quello organizzato al Teatro Binario 7 di via Turati a Monza alle 21.
L'incontro da non perdere al Binario 7
L’evento, ideato dagli Amici del Dialogo (con il sostegno del Comune di Monza e della Fondazione della Comunità di Monza e Brianza), si svolge in occasione della giornata in memoria delle vittime del terrorismo e parte proprio da quell’evento del 1978 che cambiò la storia dell’Italia repubblicana, l’assassinio di Aldo Moro, ma non si ferma lì e va oltre, in tutti i sensi.
«Il pensiero contro le armi: l’attualità del memoriale di Aldo Moro», ripercorre la vicenda Moro rivista alla luce dei suoi scritti e del suo memoriale con una lettura scenica, ma si conclude con un incontro volto ad approfondire perché la giustizia riparativa abbia un ruolo così importante. E lo fa con la testimonianza di Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo ucciso dalle Brigate Rosse e mediatore Giustizia Riparativa e di Ernesto Balducchi ex leader del partito armato, protagonista della consegna delle armi al Cardinal Martini.
Due storie che non c’entrano con la vicenda di Moro, ma che sono fondamentali per far capire come da una situazione così dolorosa sia poi nata nelle coscienze di alcuni leader del partito armato e di alcuni parenti delle vittime del terrorismo la possibilità di un incontro, di un dialogo senza sconti, di ascolti e sfoghi, lacrime, emozioni, abbracci.
L'intervista esclusiva a Balducchi
Che effetto fa parlarne proprio a Monza e che legame ha avuto con la città?
A Monza ci sono arrivato a 6 anni quando la mia famiglia ha lasciato il lago di Iseo e ci sono cresciuto. Alla Raiberti ho fatto le elementari, i miei si sono spostati un po’ di volte cambiando quartiere, hanno vissuto in via Sanzio, poi a Cederna nelle case popolari di via Zuccoli, poi a Taccona dove per alcuni anni hanno gestito un circolo della Parrocchia e a seguire in via Porta Lodi dove avevano una latteria. Io ero andato in seminario per cinque anni e quando ne uscii proprio in Spalto Piodo iniziai a fare politica con Lotta continua. In città presi il diploma alle magistrali, poi nel 1973 mi sposai con una compagna di scuola e andammo ad abitare a Vimercate. Lei purtroppo morì giovanissima in un incidente stradale a 34 anni e io mi ritrovai vedovo la prima volta. A Monza ci ho vissuto fino a 7 anni fa quando ho conosciuto la mia attuale compagna che è di Maiorca e oggi vivo tra via Cavallotti e la Spagna. Ho accettato volentieri di fare incontri nelle scuole, ma a Monza non era mai capitato e non lo avevo cercato...
Come sono iniziati questi incontri e qual è il suo legame con la vicenda di Moro?
In realtà non c’è alcun legame, perché non ho avuto nulla a che fare con il sequestro e le Br. Fu però dopo alcuni incontri con Agnese Moro (la figlia del presidente della Dc ucciso dalle Brigate rosse ndr) nel 2010 che iniziai a parlare di Giustizia riparativa nelle università . Fu lei a chiedermi di accompagnare Giovanni Ricci, il figlio dell’autista di Moro ad un evento che ci sarebbe stato in Veneto. Lui non potrà esserci a Monza ed è un peccato, ma ci sarà Giorgio Bezzega, il figlio del poliziotto ucciso dalle Br. Il mio nesso con l’evento invece è il mio pensiero contro le armi che è quello su cui interverrò io, raccontando l’episodio con Martini.
Un episodio che passò alla storia, quale fu il suo intervento?
Ero detenuto da quattro anni in carcere in attesa di giudizio quando feci restituire le armi della mia organizzazione. Ne fui l’autorità morale, ho caldeggiato questo atto appoggiandomi a una decisione collettiva proprio negli anni in cui era in corso il processo contro più di 200 imputati per lo più di Prima Linea come me accusati di banda armata. Maturai durante la detenzione la decisione di abbandonare la lotta armata, avendo constatato la sconfitta e il danno che il sangue aveva causato, sia a noi che agli altri. Con la differenza che noi avevamo scelto la lotta armata, ma gli altri l’avevano subita.
Non fu solo un gesto simbolico quello del 13 giugno del 1984. Il 27 maggio, dal carcere di San Vittore, lei aveva inviato al cardinale Carlo Maria Martini una lettera per chiedere l’intervento della Chiesa in una sorta di mediazione per la ripresa del dialogo con lo Stato. Perché la chiesa?
Avevamo già maturato un giudizio negativo sull'esperienza della lotta armata però ci mancava un interlocutore disponibile al dialogo: il carcere lo avevamo meritato, ma volevamo un dialogo con uno scopo. Lo Stato voleva solo condannarci, provammo a scrivere ai sindacati, poi successe qualcosa. Nel dicembre 1983 il cardinale Martini venne a San Vittore e parlò con noi dopo la Messa. Capimmo la sua disponibilità e allora scrissi la lettera e mi attivai per fare consegnare le armi a quelli che erano fuori e che avrebbero potuto farne ben altro uso. Portarono le valige con armi ed esplosivi all’Arcivescovado di Milano e poi furono le autorità ecclesiastiche a consegnarle al Prefetto.
L’abbandono delle armi insomma è stato il primo passo...
Poi iniziammo ad affrontare l’eredità delle vittime. Come movimento armato avevamo un debito con le vittime e questa consapevolezza che è viva ancora oggi ci porta a un rapporto speciale per non far dimenticare chi subì le conseguenze della lotta armata suo malgrado. Queste persone devono avere un posto nella memoria collettiva.
Oggi gira le scuole, incontra i ragazzi, quale messaggio si sente di portare?
Il mio scopo e il mio ruolo è un altro, ma se me lo si chiede io ci tengo a dire che con la violenza non si va da nessuna parte. Noi sbagliammo. C’erano condizioni molto diverse da quelle di oggi, nell’Italia del 1971-72 si respirava un altro clima, erano gli anni bui della Repubblica e nella nostra ingenuità temevamo un colpo di stato militare e pensavamo di doverci preparare e che la lotta fosse uno strumento inevitabile per la via al comunismo
Lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle e su quella delle vittime che non si va da nessuna parte con la violenza. Non sono un professore, ancora oggi non posso votare, ma posso dirlo: la guerra non è mai la risposta.
Negli anni ci sono stati incontri con le vittime del terrorismo. Nel 2017 ad esempio ha incontrato Fausto Silini, all’epoca capo reparto della Breda, gambizzata dai terroristi nel 1977: sei colpi di pistola indirizzati alle gambe, tre a bersaglio. Qual è stato l’incontro che l’ha colpita di più?
Sento il debito con le vittime. Ci sono stati incontri riservati in questi anni, lontano dai riflettori, per non scatenare polemiche. E non mi piace parlarne se non sono i diretti interessati a farlo, per una forma di rispetto.
Questi incontri sono nati per il puro scopo di sanare le ferite. Abbiamo l’obbligo di far capire il perché, la verità, come sono andate le cose.
Da qui il suo impegno per la Giustizia riparativa...
Per me è un tema molto importante e sono soddisfatto che sia stata anche normata e che sia una formula possibile di risarcimento e una misura complementare alla pena per rendere consapevole delle conseguenze delle azioni sulla vittima. Il carcere si fa, ma non restituisce nulla alla vittima che non viene resa partecipe della riabilitazione. Le vittime devono diventare protagoniste, in un processo di riconciliazione.