Pensieri e parole con contorno di cazzuola
Angelo Cecchetti, triuggese appassionato di storia e cultore del nostro idioma, ci accompagna in questo viaggio.
Dimenticata da anni, la cazzuola è tornata sulla tavola dei brianzoli. Angelo Cecchetti di Triuggio, appassionato di storia e cultore del dialetto, ci accompagna in questo viaggio iniziato per scherzo sorseggiando una birra e finito davanti a un piatto di cazzuola... la stessa cassoela che ha segnato la fine del dialetto? O forse no...
Pensieri e parole con contorno di cazzuola
Da qualche tempo, con vari amici di sera e con una birretta, ci si chiede se il nostro dialetto brianzolo stia scomparendo. Non si ha la presunzione di scrivere un trattato sulla questione, solo proseguire e allargare ad altri amici, senza la birretta davanti…. Ul me Amìs (con articolo e la A maiuscola per evidenziarne la sapienza/conoscenza della materia) è dell’idea che il dialetto brianzolo è ancora vivo in quanto, essendo lo stesso dialetto non una lingua statica ma in evoluzione, si adegua al trasformarsi della società. Ora senza pretese, un po’ per giocare, come se si lanciassero dei dadi al gioco dell’oca, buttiamo sul piatto alcuni “punti di vista”, alcuni seri e altri un po' meno.
Il dialetto brianzolo
Carlo Redaelli nel 1832 scriveva “….dimenticati gli avanzi di un dialetto obsoleto...”. Non importa di quale dialetto parlasse, ma sta di fatto che il dialetto, per il periodo in questione, già poteva essere sorpassato. Ci si chiede allora, essendo il dialetto una lingua ”parlata”, è corretto cercare di metterla per iscritto? Per dare un senso cronologico a quanto sopra, il nostro dialetto brianzolo o brianzuolo-milanese, oltre ad alcuni testi di lingua “milanesa” d’epoca seicentesca e settecentesca di importanti autori, deve aspettare il 1814 per avere il vocabolario di dialetto milanese di Francesco Cherubini in due tomi. Successivamente, dal 1839 fino al 1843, sempre lo stesso Cherubini, mise in stampa 4 volumi. Infine nel 1856, dopo la morte del Cherubini, a completamento della sua opera, fu messo in stampa l’addenda postuma con “L’idioma brianzuolo”. Questi 5 volumi contengono circa duemilatrecentoventotto pagine di dialetto milanese brianzolo e dintorni. Per gli amanti del dialetto e del passato, il Cherubini è “La Stele di Rosetta”.
Nel Novecento si parlava quotidianamente
Va aggiunto che oltre a questo vocabolario, altri autori si sono impegnati a stilarne fino alla fine del ‘800 e anche nel ‘900. Nelle prime decadi del Novecento il dialetto si parlava quotidianamente; i genitori lo usavano con i figli, quindi l’uso del tramandare le tradizioni era ancora un’attività normale. Arriviamo alla fine del 1960, gli anni del miracolo economico italiano. Inizia l’abbandono delle campagne, l’industria comincia a prendere il sopravvento sull’agricoltura: cambia il sistema di vita. Si lasciano i cortili per andare a vivere nei condomini, quindi non più “andà al cess in funt a la curt”, potendo così usufruire della toilette in casa (toilette si diceva come scritto...). Da qui, il benessere acquisito porta a un allontanamento della vita dei cortili. Addirittura, in questo periodo in alcune famiglie condominiali, si introduce la “regola” di non parlare più il dialetto, proibendone ai figli l’uso, lasciando trasparire come fosse un simbolo ancorato alla vecchia vita di cortile, di una condizione sociale più bassa. Qui, ripeto, non si sta facendo una disamina sulla questione del dialetto, ma sarebbe comunque interessante chiedersi: “Il dialetto brianzolo vive, sopravvive, si è evoluto, si è perso o si è smarrito?”. Chi parla oggi in dialetto, chi lo parla ai giovani, chi conosce il ricordo di parole/detti dialettali ecc.?
Chi parla oggi il dialetto?
Oggi l’evoluzione del dialetto limita l’uso della parola con solo due azioni: la prima è quella di mettere l’articolo davanti alla parola stessa “ul”; la seconda è quella di levare l’ultima lettera della parola in questione. Per esempio: ul televisur o la television, ul telefun, ul frigu. Un po’ triste direi (è solo un mio punto di vista). Pensare all’importanza della musicalità di alcune parole dialettali che già con il fragore degli accenti (burlunà o borlunà – rotolare, dà il senso del movimento) o il pronunciare quasi sussurrando alcune desinenze (nisciorin o niscolin o nisciolen – moscardino (simile ad un piccolo ghiro rossiccio) esprime la visone di un piccolissimo roditore. Inoltre dal mondo contadino nascevano una serie di modi di dire collegati al loro mondo, come “Ul tempural de muntagna al bagna neanca la cavadagna” (la parte finale di un campo dove era difficoltoso usare l’aratro) che, in sintesi, indicava poca pioggia. Te fa l’oeff fò dal cavagnò – fare l’uovo fuori dal cestino – compiere un’azione sbagliata. Il mio pensiero è forse quello di essere un melanconico affezionato al ricordo del dialetto brianzolo, o meglio al periodo dove quotidianamente lo si usava. Forse un domani qualcuno scriverà in dialetto “nove uova su nove fuochi” e lo pronuncerà correttamente…Nel frattempo vediamo insieme quali sono le condizioni del dialetto Brianzolo. E’ ancora in vita, estinto o in via di estinzione? Proviamo a porci alcune domande con relative risposte teoriche.
Il dialetto esiste ancora?
Qui si apre un baratro… Abbiamo due opposti fronti. Come falange macedone, una parte, asserisce che il dialetto non è scomparso, punto e basta. Alla parte opposta si ha lo schieramento che conferma la presenza del dialetto in forma residuale, lasciato per lo più agli anziani come retaggio embrionale/brianzolo, ormai ancorato ai ricordi dei tempi passati. Si pensi al “dramma” di mia zia Rinuccia, classe 1936, quando da bimba alle elementari di Lesmo si trovò subito disorientata. Appesi alle pareti della classe, vi erano cartelli colorati, raffiguranti oggetti con i nomi e relative lettere iniziali scritte in maiuscolo a carattere cubitale e, trovatasi di fronte al disegno della “cadrega” (sedia) ebbe un momento di sconcerto in quanto sotto il disegno della “cadrega” non c’era la C ma la S. Ma che scuola è? Pensò. Nel suo mondo di cascina, quella era solo una cadrega, fece notare “l’errore” alla maestra e fu ripresa in malo modo che ancora recentemente me lo ha ricordato.
Cosa ha portato il dialetto brianzolo a essere così oggi?
Si può pensare al buon Don Lisandèr (Alessandro Manzoni) che, oltre a essere un associato del vocabolario milanese del Cherubini, si è preso la briga di cercare di accomunare tutti gli italiani all’uso di un’unica lingua, “addirittura” eliminando dalla sua prima versione dei Promessi Sposi, tutta una serie di “lombardismi” (… risciacquare i panni in Arno…). Rimane sottinteso che non si sta attribuendo nessuna colpa a nessuno. Passato quindi il 1840, si arriva all’unità d’Italia, 1861. Un’unità politica, certo, ma quanto ai fattori culturali? Ogni regione manteneva il suo dialetto. Tuttavia, è solo durante la Prima guerra mondiale che queste “differenze comunicative” si fanno evidenti. I soldati in trincea avevano difficoltà nel comunicare tra di loro. Per esempio, dove per il bresciano montano il maiale era “hi, con l’acca aspirata”, per il valligiano bergamasco il suino era “ul roi”, assonanza zero. Arriviamo al 1925 dove il “Gruppo d’azione per le scuole de popolo – Corso Roma, 110 Milano” pubblica “Esercizi di traduzione dal dialetto Milanese per la quinta classe elementare”. Forse uno dei primi tentativi pedagogici che si misero in campo per uniformare la lingua, una specie di mini globalizzazione linguistica, così come nel periodo del fascismo, quando si tentò di dare al popolo italico un’unica lingua nazionale, senza riuscirci (ricordiamoci della zia Rinuccia! (della C e della S di cadrega)) ... Finalmente venne la Repubblica Italiana, finisce la seconda guerra mondiale, pian piano la ripresa economica che “necessita” di una burocratizzazione che deve possedere un linguaggio univoco (ahimè!). Non potrà più succedere che in ufficio anagrafico nel territorio di Brianza, di fronte alla richiesta del rilascio della carta identità alle domande poste al richiedente: Dov’è nato? Professione? Risposta: Sunt nasù a Dès e fò ul trumbeè, (Sono nato a Desio e sono idraulico). Il solerte impiegato sul documento di identità inserì: nato a Dieci – professione: musicante…
Quindi è colpa del progresso, dell’evoluzione se il dialetto si sta spegnendo?
Anche questa volta ci suggerisce una risposta il Manzoni: “Non sempre il progresso porta cose buone”. Sembra quasi che negli insediamenti dove si è avuta un certo miglioramento socioeconomico dovuto all’industrializzazione, si sia verificato il fenomeno di “abbandono” del dialetto. Più trascorrevano gli anni e cresceva il sudato benessere, più in maniera inversamente proporzionale, il dialetto cadeva nell’oblio; risultando solo appannaggio degli anziani. Ci troviamo all’ospedale di Besana Brianza negli anni Ottanta. Per indicare il ginecologo mi si disse: “Uè bel bagaj, (avevo poco più di 20 anni…) a gò de ciapà l’apuntament per la mia dona dal desfaniad” ... Ora, tentare di analizzare la parola è arduo, ma possiamo provarci. “Desfa”: rompere, mettere in disordine, andar a disfare per poi sistemare (si pensi desfà ul lecc, per rifare il letto). Poi abbiamo “niad” da niada – nidiata, il nido ecc. qui si lascia poca immaginazione…
E’ colpa della cassoela (cazzuola) se non si parla più il dialetto?
Eh sì, la cassoela ha la sua logica nel nostro astruso discorso. (...stranamente la parola “astruso” ha un certo suono onomatopeico con “l’Artusi” re dei cuochi...). Prima di tutto si noti la modificazione linguistica, che quasi per pudore calligrafico ha trasformato la parola originale “cazzoela” in cassoela, e quindi a tal scopo ci adeguiamo. Notoriamente piatto dei poveri fatto con tutto quello che si poteva usare del maiale, in tempi in cui la parola colesterolo non era ancora stata inventata… Fino a qualche anno fa la cassoela era sparita del tutto dalle tavole dei brianzoli. Sopravviveva in qualche locale o si faceva solo su ordinazione. Poi si è iniziato a introdurre anche la cassoela slavata, cioè con le verze cotte a parte. Il puro estimatore nonché cassoela-dipendente non ha dubbi: la cassoela slavata non si fa, non si può chiamarla così…! Chiudiamo qui l’aspetto meramente culinario. Allora, perché si dà la colpa alla cassoela del dialetto morente? Oggi si vanno ancora a comprare gli ingredienti, ma ahimè non tutti, per i sopracitati motivi, ma le persone che la cucinano per uso familiare sono sempre meno. La si può trovare come piatto ricercato al Ristorante con la R maiuscola. Anche in questo caso si ha una similitudine, dove il passaggio da un ceto basso, alimento per gente di cortile, ad uno più alto, gente benestante, fa perdere o scomparire il punto d’origine (aborigeno), quindi essendo passata sulle tavole del benestante si può tornare a consumarla, perché non la si considera più appartenente al ceto inferiore.
Contrariamente il dialetto che, anche modificando gli ingredienti, non si può far rivivere se non sotto forma di dialetto slavato, improponibile.
Se non è colpa della cazzoela, sarà colpa della pult e del pumià?
Un aiuto, tratto da “L’intervista”, un librettino, dove mio figlio, anni fa chiedeva a sua nonna informazioni sulla vita di un tempo: “… La pult si faceva mescolando la farina gialla di granoturco con il latte, facendo così una “pappina” molle, mentre per ul pumià, si prendeva un po’ di pan gialt (pane giallo fatto con faina di mais e segale) unito con poca acqua bollente, un po’ di latte e i più fortunati, cioè chi l’aveva, anche un po’ di panna. Quindi caro Carlo, per colazione potevi scegliere o pult o pumià…” Il mangiare era quello non si scappava, forse qualcuno non poteva nemmeno scegliere tra il nulla o il niente. Ora la colazione non si chiama più neanche in tal modo, ha preso il suo posto il breakfast, dove tra le miriadi di scelte non compaiono più né la pult né ul pumià, solo kinder brioss…
Negli insediamenti meno industrializzati, il dialetto è ancora presente?
Se andiamo oltre possiamo osservare anche che in alcune zone d’Italia esistono, o resistono, realtà dove il dialetto ha una forte prevalenza, quale esempio di realtà identificativa e continuativa. Oppure, per motivi territoriali, morfologici o di transito viabilistico si sono create aree dove le lingue mader (madri) sono radicate e difficilmente estirpabili, almeno per il momento. Al momento non proseguo, le rimanenti domande le lascio a voi. L’argomento è vasto se non vastissimo, e se qualcuno vorrà risciacquare i panni in Lambro… ben venga. Aspettando il futuro non ci resta che gustarci la seguente ciribiciacolata: La ciribiciacola de Ceravall, la gaveva cincentcinquantacinc ciribiciaculet. Ma in tõtt cincentcinquantacinc tò, chi cincentcinquantacinc ciribiciaculet lè?
Angelo Cecchetti
(collaboratore del Giornale di Carate)